“Čert a Káča”: una fiaba di Božena Němcová

Valentina Cancian

Božena Němcová, all’anagrafe Barbora Novotná, nasce il 4 febbraio 1820 a Vienna, figlia di padre austriaco e madre ceca. Riceve un’educazione tedesca, ma vive la maggior parte della propria vita in terra boema: passa, infatti, la sua infanzia a Ratibořice, frazione della città di Česká Skalice, insieme alla nonna materna Magdalena Novotná, che svolge un ruolo fondamentale per la sua formazione e alla quale, in età matura, dedicherà poi una delle sue opere più importanti. L’infanzia passata a Ratibořice le permette di instaurare un profondo legame non solo con il territorio ceco, ma anche con la cultura e la tradizione popolare, elementi che saranno fondamentali all’interno della sua produzione letteraria. All’età di diciassette anni sposa l’ispettore finanziario Josef Němec, con il quale avrà quattro figli e soggiornerà, per motivi di lavoro, in diverse città dell’Impero austro-ungarico. Il loro, però, non si rivelerà essere un matrimonio felice.

Dal punto di vista creativo, sono due i periodi cruciali per la produzione di Božena Němcová. Il primo è rappresentato dal suo trasferimento a Praga nel 1842, grazie al quale entra a contatto con importanti personaggi dell’epoca. Un altro momento rilevante per la sua produzione coincide con il trasferimento a Chodsko, provincia situata nella parte più a ovest della Boemia: qui ha la possibilità di ricongiungersi con l’ambiente rurale, ritrovando quella dimensione folclorica e popolare che l’aveva profondamente segnata durante l’infanzia. Quando nel 1850 il marito viene trasferito in Ungheria per motivi di lavoro, Božena Němcová sceglie di rimanere a Praga, dove trascorrerà il resto della sua vita in estrema povertà, fino al 1862, anno della sua morte.

L’autrice dà inizio alla propria attività letteraria in occasione del suo primo soggiorno a Praga, influenzata e incoraggiata dagli intellettuali del circolo praghese con cui entra a contatto. Tra il 1845 e il 1848 pubblica sette libri di fiabe, con il titolo di Národní báchorky a pověsti (“Fiabe e leggende popolari”), frutto della diretta influenza dell’opera favolistica di Karel Jaromír Erben e dei lunghi soggiorni nelle province boeme. Dal punto di vista tematico, infatti, queste fiabe si basano sulle tradizioni e le ambientazioni tipiche del nord-est della Boemia e della provincia di Chodsko.

Dal 1853 al 1854, in seguito alla dolorosa perdita del figlio maggiore Hynek, Božena Němcová lavora al romanzo Babička (“La nonna”, 1855), destinato a diventare una pietra miliare della letteratura ceca. Il romanzo, che raggiunse una notevole fama anche all’estero, la pone tra i maggiori esponenti della narrativa ceca del XIX secolo. Attraverso quest’opera, l’autrice rievoca con estrema limpidezza espressiva l’infanzia serena trascorsa a contatto con la natura di Ratibořice e segnata profondamente dalla presenza della nonna materna. Il personaggio centrale di questo romanzo, ambientato nella Boemia orientale, è per l’appunto una nonna, personificazione dell’ideale di amore materno e, allo stesso tempo, dell’antico mondo patriarcale della campagna boema. L’autrice offre quindi uno sguardo sugli usi e costumi boemi, immersi nel contesto rurale ceco del XIX secolo.

Successivamente, la produzione favolistica di Božena Němcová prosegue nel 1857 e nel 1858, anni in cui vengono pubblicate due raccolte di fiabe slovacche, intitolate rispettivamente Slovenské pohádky a pověsti I e Slovenské pohádky a pověsti II (“Fiabe e leggende slovacche I e II”). La stesura di queste due raccolte fu possibile grazie ai numerosi viaggi di lavoro del marito in Slovacchia, dove Němcová poté entrare a contatto con le tradizioni folcloriche slovacche. Alla sua produzione letteraria vanno poi ad aggiungersi gli appunti di viaggio, i saggi dedicati al folclore, i lavori di ricerca etnografica e di descrizione dei contesti rurali – con un occhio di riguardo per quelli ungheresi e slovacchi – e, infine, anche numerosi racconti.

Attraversando svariati generi letterari, l’opera di Němcová si caratterizza per uno stile minuzioso che, partendo dall’ambito folclorico, riesce ad espandersi verso dimensioni sempre più realistiche e concrete. L’elemento tradizionale delle sue opere viene spesso arricchito da riferimenti sociali e critici, che contribuiscono a rendere la sua produzione un’anticipazione di alcuni caratteri della letteratura ceca successiva che, passando per il realismo critico, sfocerà in quello di stampo socialista.

Čert a Káča (“Il diavolo e Caterina”) è una delle fiabe più amate e conosciute della tradizione popolare ceca. Pubblicata all’interno della raccolta Národní báchorky a pověsti (“Storie e leggende popolari”), questa fiaba vede come protagonista Káča, il cui nome parlante offre subito una chiave di lettura del personaggio. Il nome Káča, infatti, non solo rappresenta un diminutivo del nome ceco Kateřina (Caterina), ma viene usato volgarmente per identificare una donna poco intelligente e frivola. In questa fiaba, Káča è lo zimbello del paese: il suo pessimo carattere scoraggia chiunque dall’invitarla a ballare. Stufa di non ricevere attenzioni, un giorno dichiara di essere disposta a ballare perfino con il diavolo. Ben presto compare proprio il diavolo nelle vesti di un cacciatore e decide di accontentarla, invitandola a ballare e portandola poi all’inferno con sé.

È necessario sottolineare che la peculiarità di questa fiaba non ha colpito solo il pubblico ceco: sulla fiaba Čert a Káča di Božena Němcová, infatti, è stata basata l’opera lirica in tre atti Il diavolo e Caterina, composta da Antonín Dvořák (1841 – 1904) nel 1899. Insieme all’opera lirica Rusalka (1900), Il diavolo e Caterina rappresenta il frutto di un interesse sempre crescente del celebre compositore nei confronti dei temi fiabeschi boemi.

Vista l’importanza della fiaba e la mancanza di un’edizione in italiano, si propone in seguito la traduzione di Čert a Káča con il titolo Il diavolo e Káča. Si è deciso di mantenere la versione originale del nome Káča per non perderne la peculiarità e il significato, assenti nella versione estesa Kateřina e nel corrispondente italiano.

 

“Il diavolo e Káča

In un paese c’era una volta una serva ormai in là con gli anni di nome Káča, che possedeva solo una casa con giardino e qualche soldo d’oro, ma anche se fosse stata sommersa dall’oro, neanche il più povero dei giovani del paese l’avrebbe mai sposata, perché era perfida e sfacciata come il diavolo in persona. Viveva con la madre anziana e perciò, di tanto in tanto, aveva bisogno di un aiutante, ma anche se due soldi avessero potuto aiutare qualcuno e lei gli avesse invece offerto dei ducati, nessuno avrebbe alzato un dito per lei, perché avrebbe iniziato subito a lamentarsi per ogni piccolezza tanto che l’avrebbero sentita a mille miglia di distanza. Oltre tutto non era neppure bella, e così era rimasta zitella e si stava ormai avvicinando alla quarantina. Come succedeva di solito nei paesi, ogni domenica pomeriggio anche il suo si riempiva di musica; appena si sentivano le cornamuse in piazza o alla locanda, il locale si riempiva subito di giovani, le fanciulle si mettevano in piedi ai lati e i bambini si sistemavano vicino alle finestre. Ma la prima a presentarsi era sempre Káča; i ragazzi facevano un cenno alle ragazze, che li raggiungevano nel cerchio al centro della sala, ma in tutta la sua vita a Káča questa fortuna non era mai capitata, anche se avrebbe volentieri pagato di tasca sua lo zampognaro; nonostante ciò, non si perdeva neanche una domenica di festa. Una volta, strada facendo, le venne in mente: “Ormai sono vecchia e nessuno mi ha ancora invitato a ballare. Che rabbia! Oggi sarei disposta a ballare perfino con il diavolo!”

Arrivò alla locanda ancora arrabbiata, prese posto vicino al camino e si mise ad osservare le coppie che si andavano formando. Ad un tratto, dalla porta entrò un signore vestito da cacciatore, che prese posto vicino a Káča e ordinò da bere. Una serva gli portò la birra, il signore la prese e, versandone anche a Káča, le propose un brindisi. Káča non riusciva a credere che quel signore avesse deciso di concederle un tale onore: esitò per un po’, ma alla fine bevve un sorso di birra. Il signore posò la caraffa, tirò fuori dalla tasca un ducato, lo lanciò allo zampognaro e urlò: “Fate largo, ragazzi!” I giovani si spostarono di lato per far passare il signore, che prese per mano Káča invitandola a ballare.

“Accidenti, chi diavolo è?”, si chiesero gli anziani, sporgendosi per vedere meglio; i ragazzi facevano delle smorfie e le ragazze si nascondevano l’una dietro l’altra, coprendosi la bocca con i grembiuli per non farsi vedere da Káča mentre ridevano. Ma Káča non si rendeva conto di nulla: era talmente felice di ballare con qualcuno che, anche se tutti l’avessero presa in giro, non ci avrebbe fatto nemmeno caso.

L’uomo ballò solo con Káča tutto il pomeriggio e tutta la sera, le offrì del marzapane e dell’acqua zuccherata e, quando arrivò il momento di andarsene a casa, l’accompagnò per tutto il paese.

“Magari potessi ballare con lei come oggi fino alla morte”, disse Káča, quando giunse il momento dei saluti.

“Si può fare, basta che tu venga con me.”

“E dove vive lei?”

“Tieniti stretta a me e te lo mostrerò.”

Káča lo afferrò, e in quel preciso istante il signore si trasformò nel diavolo e la portò con sé all’inferno. All’ingresso si fermò e iniziò a bussare alla porta d’entrata; gli altri diavoli vennero ad aprirgli e, vedendo che era stanco morto, cercarono di aiutarlo togliendogli di dosso la zitella. Ma lei gli restava attaccata addosso come una zecca e niente al mondo riuscì a staccarla; volente o nolente, il diavolo dovette recarsi dall’Anticristo trascinandosela dietro.

“Che hai addosso?”, gli chiese il signore.

E così il diavolo gli raccontò che, mentre se ne andava in giro sulla Terra, a un certo punto aveva sentito Káča lamentarsi di non aver mai ballato con nessun uomo, e così aveva pensato di accontentarla concedendole un ballo; più tardi aveva voluto farle fare un giro all’inferno. “Non potevo certo immaginare che non si sarebbe più staccata”, concluse.

“Perché sei uno stupido e non ti ricordi mai quello che ti ho insegnato.”, lo rimproverò il vecchio signore. “Prima di fare qualcosa a qualcuno, devi capire bene il suo modo di pensare; se te lo fossi ricordato, una volta accompagnata Káča a casa, non l’avresti portata qui con te. Ora sparisci dalla mia vista e vedi di sbarazzartene.”

Infastidito, il diavolo tornò sulla Terra con Káča ancora addosso. Le promise mari e monti, a patto che lo lasciasse e arrivò perfino a minacciarla, ma non servì a niente.

Sfinito e frustrato, giunse con la sua palla al piede fino a una radura, dove un giovane pastore vestito con un’enorme pelliccia stava pascolando le sue pecore.

Il diavolo aveva riassunto sembianze umane, perciò il pastore non lo riconobbe.

“Che porta in spalla, amico mio?”, chiese in confidenza al diavolo.

“Ah, buon uomo, faccio perfino fatica a respirare. Pensi un po’: mi stavo facendo i fatti miei, senza pensare a nulla, quando questa donna mi è saltata al collo e ora non mi vuole lasciare andare per nulla al mondo. Volevo portarla al paese più vicino e piantarla in asso in qualche modo, ma non ne sono più in grado, ormai non mi reggo più in piedi.”.

“Allora, aspetti un attimo… la posso aiutare col suo fardello, ma non per molto, perché devo continuare il mio lavoro; se vuole, posso portarla io per metà della strada”.

“Mi farebbe un grande favore.”.

“Ehi tu, ascoltami, aggrappati a me”, gridò il pastore a Káča.

Káča, appena lo sentì, lasciò andare il diavolo e si aggrappò alla folta pelliccia. Adesso l’esile pastore aveva un bel carico da portare: non solo Káča, ma anche la pelliccia pesantissima che aveva preso in prestito quella mattina stessa dal suo fattore. Ben presto anche lui si stancò e iniziò a pensare a come sbarazzarsi della donna. Una volta arrivato vicino a uno stagno, gli venne in mente di buttarla dentro. Ma come fare? Se solo avesse potuto togliersela di dosso assieme alla pelliccia… Gli stava abbastanza grande e quindi cercò capire a poco a poco se avrebbe funzionato. Ed ecco che tirò fuori prima un braccio e poi l’altro, senza che Káča si accorgesse di nulla. Tolse il primo gancio, poi il secondo, il terzo e splash – Káča finì nello stagno insieme a tutta la pelliccia.

Il diavolo non aveva seguito il pastore, ma era rimasto seduto sull’erba a tenere d’occhio il gregge, in attesa che l’altro tornasse con Káča. Non dovette aspettare a lungo. Con in spalla la pelliccia ancora fradicia, il pastore tornò indietro in fretta e furia, preoccupato che il forestiero se ne fosse andato via lasciando incustodite le sue pecore. Rivedendosi, si fissarono perplessi per un attimo: il diavolo era sorpreso che il pastore si fosse liberato di Káča, il pastore che fosse ancora lì ad aspettarlo. Quando si furono spiegati, il diavolo disse al ragazzo: “Ti ringrazio, mi hai fatto un grande favore, altrimenti avrei dovuto sopportare Káča fino alla fine dei suoi giorni. Non mi dimenticherò mai di te e, quando sarà il momento, mi sdebiterò come si deve. Però, voglio che tu sappia chi hai aiutato nel momento del bisogno: sono il diavolo”. Così dicendo, scomparve. Il pastore rimase per un attimo senza parole, poi disse tra sé e sé: “Se sono tutti così stupidi come lui, allora posso stare sereno.”.

Nel paese dove viveva il pastore, regnava un giovane principe molto ricco: era un uomo libero che pensava solo a godersi la vita. Giorno dopo giorno, si deliziava di ogni piacere che la vita gli offriva e, quando calava la notte, dalle sale reali si sentivano le urla di una gioventù scapestrata. Il regno era amministrato da due governatori, che non erano in alcun modo migliori del loro padrone. Questi prendevano tutto ciò che il principe non aveva ancora sperperato e la povera gente non sapeva più di che vivere. Chi aveva una figlia di bell’aspetto o dei risparmi viveva nella paura, si aspettava che da un momento all’altro il principe avrebbe preteso come suoi di diritto tutti i loro averi, e solo la grazia di Dio avrebbe potuto aiutare chi si sarebbe opposto alla sua volontà! Chi avrebbe mai potuto amare un sovrano del genere? In tutto il regno, i sudditi maledicevano il principe e i suoi governatori. Una volta, quando non sapeva più come passare il tempo, il principe chiamò a corte un astrologo e gli ordinò di leggere nelle stelle il suo futuro e quello dei governatori. L’astrologo obbedì e scrutò il cielo per determinare quale sarebbe stata la loro sorte.

“Mi perdoni, Sua Maestà”, disse l’astrologo una volta conclusa la sua indagine. “Lei e i Suoi governatori correte un pericolo tale che ho quasi paura a parlarvene.”.

“Parla, costi quel che costi! Però dovrai restare qui, e se le tue parole non si avvereranno, ti farò tagliare la testa.”.

“Accetto più che volentieri i Suoi ordini. Dunque, mi ascolti: prima che arrivi il secondo quarto di luna, il diavolo verrà a prendersi i governatori, a tale ora di tale e tale giorno. Quando ci sarà la luna piena, il diavolo verrà a prendere anche Lei, Sua Maestà, e vi porterà tutti e tre all’inferno”.

Il principe a quel punto ordinò: “Mettete subito in prigione questo truffatore da quattro soldi!”, e i suoi servitori gli obbedirono. Ma in realtà, il principe non era sicuro come voleva sembrare: le parole dell’astrologo lo avevano parecchio sconvolto. Per la prima volta aveva sentito la voce della propria coscienza! I due governatori se ne tornarono alle proprie case mezzi morti dalla paura e nessuno riuscì a mangiare alcunché. Raccattati tutti i propri averi, salirono in carrozza, scapparono nelle proprie dimore e si barricarono dentro, per impedire che il diavolo potesse venire a prenderli. Il principe, invece, tornò sulla retta via: iniziò a vivere tranquillamente e assunse il governo del proprio regno, sperando che non si avverasse il suo destino crudele.

Il povero pastore non aveva idea di ciò che stava accadendo; giorno dopo giorno pascolava il suo gregge e non si curava affatto di ciò che succedeva nel mondo. Un giorno, di punto in bianco, gli apparve di fronte il diavolo, che gli disse: “Caro pastore, sono venuto a sdebitarmi con te. Con il primo quarto di luna, devo portare con me all’inferno i governatori del regno, perché hanno derubato la povera gente e sono stati dei pessimi consiglieri per il principe. Ma sai che ti dico, siccome vedo che potrebbero redimersi, li lascerò qui e, al tempo stesso, ricompenserò te. Il tale e tale giorno, dirigiti al primo castello, dove troverai radunata una grande folla. Nel momento in cui sentirai delle urla, i sudditi apriranno il portone e io porterò fuori il signore. A quel punto, vienimi incontro e dimmi: «Vattene subito, altrimenti saranno guai!». Io ti ascolterò e me ne andrò. Dopodiché, fatti dare dal signore due sacchi pieni d’oro e, se non te li vuole dare, minaccialo di richiamarmi. Poi, dirigiti al secondo castello, fai lo stesso ed esigi lo stesso compenso. Però, tieni da conto i tuoi soldi e usali per fare del bene. Quando ci sarà la luna piena, dovrò andare a prendere il principe in persona, ma non ti consiglio di provare a liberarlo, altrimenti dovrai dare in cambio la tua vita.”. Così concluse il suo discorso e se ne andò.

Il pastore cercò di ricordarsi ogni parola. Quando arrivò il primo quarto di luna, lasciò il proprio gregge e andò al castello, dove viveva uno dei due governatori. Arrivò proprio al momento giusto: la folla si era raccolta a guardare il diavolo che portava via il signore. A un certo punto, si udirono nel castello delle grida spaventose, il portone si aprì e il maligno portò fuori l’uomo moribondo e bianco dalla paura. In quel momento, il pastore si fece largo tra la gente, afferrò l’uomo per la mano e allontanò il diavolo dicendo: “Vattene subito, altrimenti saranno guai!” Il diavolo sparì di colpo e il signore, ormai fuori pericolo, baciò la mano al pastore, chiedendogli cosa avrebbe voluto come ricompensa. Quando il pastore gli rispose che desiderava due sacchi d’oro, il signore ordinò ai suoi servitori di accontentarlo immediatamente.

Soddisfatto, il pastore si recò quindi al secondo castello, dove fece le stesse identiche cose. Va da sé che il principe era subito venuto a saperlo, visto che si informava continuamente sulle sorti dei governatori. Dopo essere venuto a conoscenza di ciò che era successo, mandò una carrozza trainata da quattro cavalli a prendere il benvoluto pastore e, quando lo portarono a corte, lo supplicò di aver pietà di lui e di aiutare anche lui a scappare dalle grinfie del maligno.

“Mio signore”, rispose il pastore, “non posso prometterlo; in questo caso ci andrei di mezzo io. Lei è un grande peccatore, ma se vorrà diventare una persona migliore e governare la sua gente in modo equo, misericordioso e saggio, come spetta a un principe, allora proverò ad aiutarla, anche se dovessi essere io a prendere il suo posto all’inferno”.

Senza pensarci due volte, il principe accettò le condizioni e il pastore se ne andò dopo avergli promesso di presentarsi lì il giorno stabilito.

Ormai ovunque si aspettava la luna piena con paura e ansia. All’inizio molti auguravano al principe il peggio, poi, però, iniziarono a compatirlo, poiché aveva iniziato a comportarsi meglio e nessuno poteva sperare in un principe migliore. I giorni passavano sia per chi li contava con impazienza, sia per chi lo faceva con timore! Prima che il principe se ne accorgesse, il giorno in cui avrebbe dovuto lasciare tutto ciò che lo rendeva felice era ormai alle porte. Vestitosi di nero e pallido come un morto, il principe si mise ad aspettare che arrivasse il pastore o il diavolo. All’improvviso la porta si spalancò e il diavolo apparve davanti ai suoi occhi.

“Preparati, principe, è giunta la tua ora.”

Senza proferire parola, il principe si alzò e seguì il diavolo nel cortile, dove si era riunita una grande folla. In quell’istante, il pastore si fece largo a fatica tra la gente e, correndo verso il diavolo, gli gridò da lontano: “Vattene via, altrimenti per te saranno guai!”

“Come osi provare a fermarmi? Non ti ricordi cosa ti ho detto?”, sussurrò il diavolo al pastore.

“Sciocco che non sei altro, non sono qui per il principe, ma per te. Káča è ancora viva e ti sta cercando.”.

Non appena il diavolo sentì il nome di Káča, svanì in un batter d’occhio, lasciando il principe in pace. Il pastore rise di gusto, contento di aver salvato il principe con quello stratagemma. Come ricompensa, il principe lo nominò primo consigliere e iniziò a trattarlo come un vero fratello. Quella del principe fu un’ottima decisione, in quanto il pastore si rivelò un consigliere sincero e un suddito fedele. Dei due sacchi d’oro il buon pastore non ne tenne per sé neanche uno spicciolo, ma usò quei soldi per aiutare tutti coloro che erano stati derubati dai due governatori.

 

Bibliografia:

Božena Němcová, Národní báchorky a pověsti I, Praha, Knihovna Klasiků; 1950.

Božena Němcová, Národní báchorky a pověsti II, Praha, Knihovna Klasiků; 1950.

Božena Němcová, Slovenské pohádky a pověsti I, Praha, Knihovna Klasiků, 1950.

Božena Němcová, Slovenské pohádky a pověsti II, Praha, Knihovna Klasiků; 1953.

František Xaver Šalda, Duše a dílo, Praha, Melantrich, 1913.

Karel Jaromír Erben, Božena Němcová, Fiabe boeme, a cura di Martin Svehlik, traduzione di Cristina Buongiorno, Milano, Mondadori, 1995.

Apparato iconografico:

https://taburns25.com/2016/06/18/kladsko-borderland-and-bozena-nemcova-diary/