L’essere artificiale nella produzione di Massimo Bontempelli

Martina Cimino

Massimo Bontempelli

 Conosciuto per la fondazione della rivista “900 Cahiers d’Italie et d’Europe” (1926-1929) insieme a Curzio Malaparte a sostegno del movimento novecentista, Bontempelli detiene un ruolo di spicco all’interno del panorama letterario novecentesco, in quanto autore versatile che ha praticato nel corso della sua carriera quasi tutti i generi maggiori raggiungendo esiti originali e talora controversi che lo hanno impegnato in un confronto attivo con le principali correnti culturali e letterarie a lui contemporanee. Confronto evidente a partire dalla sua carriera giornalistica e, in particolare, dall’articolo Per i poveri letterati – pubblicato per la prima volta nel 1914 su “La Nazione” di Firenze – in cui inveisce contro il costume letterario degli inizi del ventesimo secolo ancora rivolto al passato e sostiene la necessità di un rinnovamento che permetta la nascita di una nuova anima negli scrittori italiani. Nonostante i termini usati possano mettere in rilievo una certa somiglianza con il programma futurista di Marinetti, Bontempelli non invita a una distruzione della tradizione ma a un’attualizzazione delle forme consona al tempo e ipotizza una letteratura italiana, come afferma Luigi Balducci, “ancora di dà da venire”. Il rinnovamento desiderato sembra trovare nel primo conflitto mondiale il momento propizio per introdurre un’arte originale, ricercata da Bontempelli attraverso la poesia e la forma drammaturgica e in dialogo con il movimento futurista. Infatti, è con la drammaturgia che Bontempelli inizia a sperimentare avvicinandosi criticamente al teatro sintetico futurista, in cui si può notare un’anticipazione di alcuni espedienti magicorealisti, basati sull’analogia, della sua produzione successiva.

Dunque, se nel primo dopoguerra Bontempelli è riconoscente verso il futurismo italiano, pur mantenendo un distacco – con opere come La guardia alla luna – successivamente la sua volontà di superarlo s’intensifica, tanto da rinunciare alla propria produzione letteraria antecedente il 1919 e assumere una posizione vicina a quella della pittura metafisica italiana con cui condivide l’intento di rivelare degli aspetti della realtà finora rimasti nascosti e il tema del manichino. Questo sodalizio è completo, dopo la svolta di Siepe a nordovest (1919 e poi ripubblicata con illustrazioni di de Chirico per Valori Plastici), con la composizione delle due favole metafisiche La scacchiera davanti allo specchio (1925) ed Eva ultima (1923), in cui riprende il tema della marionetta e dei burattini – già teorizzato per l’arte teatrale da Edward Gordon Craig con la sua Übermarionette e da Fortunato Depero nei Balli plastici andati in scena nell’aprile 1918 al Teatro dei Piccoli di Roma – e lo coniuga secondo la sua efficacia metafisica, intuita da de Chirico.

“Il manichino è profondamente non vivo e questa sua mancanza di vita ci respinge e ce lo rende odioso. […] Quando un uomo sensibile guarda un manichino egli dovrebbe essere preso dal desiderio frenetico di compiere grandi azioni, di provare agli altri ed a se stesso di cosa è capace e di dimostrare chiaramente ed una volta per sempre che il manichino è la calunnia dell’uomo […]. Il manichino non è una funzione, è una realtà, anzi una realtà triste e mostruosa. Noi spariremo, ma il manichino resta”. (p. 280)

Il tema, già presente in Siepe a nordovest in cui si assiste a un primo rovesciamento di ruoli tra uomini, marionette e burattini, in La scacchiera davanti allo specchio viene collegato a quello del doppio, altro tema di fondamentale importanza nella produzione bontempelliana. Infatti, il manichino, usato per provare gli abiti da signora, nel corso dell’opera diventa consapevole della propria essenza a metà tra umano e non umano e afferma la propria superiorità espressiva sull’uomo, proclamandosi abitante del vero mondo e relegando l’uomo a immagine riflessa.

“Io, essendo manichino, sono l’oggetto per eccellenza: l’oggetto, tant’è vero, sul quale gli uomini e le donne cercano di modellarsi, per sembrare manichini anche loro. Naturalmente non ci riescono mai del tutto, c’è sempre qualcosa che sopravanza. Lo capisci, ora, perché io sono il re di tutto questo reame, e perché non scendo mai nella regione inferiore?” (p. 321)

Nonostante il procedimento della sospensione dell’incredulità e l’approccio fiabesco agli eventi narrati, in quest’opera Bontempelli non rinuncia ancora a esitare tra reale e immaginario, suggerendo nell’ultimo capitolo che l’intera avventura del protagonista potesse essere un sogno. Una realizzazione completa dell’evasione si ha, invece, con Eva ultima, fiaba che pone i presupposti per la composizione di Minnie la candida. Qui la protagonista è una donna, Eva che, dopo un incontro con un veggente che le predice il futuro e con Evandro, mago atipico, accetta di lasciarsi portare in un posto fuori dal mondo, dove ha inizio un gioco di seduzione tra i due che termina in una notte di passione. Tuttavia, Eva, insoddisfatta del rapporto con Evandro, lo accusa di non saper amare e questi le manda una marionetta animata, Bululù, come oggetto amoroso sostitutivo. La natura della marionetta e la futilità dei sentimenti di Eva per Bululù vengono però smascherati da un amico di Evandro, il quale la costringe a vedere uno spettacolo di marionette che allude a quanto successo tra i due e li relega a una condizione di puro divertimento visivo. Evandro, dunque, rappresentato come un mago per nulla convenzionale, anticipa quel concetto di autore concepito come demiurgo in grado di modificare le leggi della natura e, al contempo, permette di parodiare la figura della femme fatale che Eva rappresenta e che sarà poi sostituita dalla donna candida.

Ma l’opposizione non è solo quella tra il mago moderno bontempelliano dotato di magia, intelligenza e ironia e «una donna passionale» […], ma anche tra il mago-demiurgo inteso come scrittore e creatore delle fantasime e una fantasima di lunga data” (p. 278)

Non a caso, l’antecedente cui si richiama Bontempelli è l’Eva futura di Villers de l’Isle Adam, antecedente che, rimarcando il tema dell’impossibilità di procreare, permette un collegamento con il personaggio di Helena Glory e il dialogo finale tra robot Helena e Primus di R.U.R. di Karel Čapek. E, come in R.U.R. il tema della marionetta è sviluppato attraverso il meccanismo dell’equivoco: così come Helena Glory inizialmente non distingue umani e robot, qui Bululù viene considerato da Eva come la “persona più chiara e umana e naturale che aveva incontrato”. Tuttavia, una differenza sostanziale è presente: il disincanto di Eva quando scopre la natura inanimata della marionetta.

Un’altra suggestione importante, nello sviluppo di questa tematica deriva dall’esperienza presso il Teatro d’Arte diretto da Pirandello – noto anche come Teatro degli Undici – a partire dal 1924, per il quale compone il dramma Nostra Dea nel 1925. La protagonista è anche in questo caso una donna, Dea, il cui carattere e umore cambiano col variare degli abiti che indossa. Il tema del manichino, indagato attraverso l’influenza delle opere di Pirandello, si concentra sul motivo della natura instabile e sociale dell’identità e dunque sul conflitto tra soggetto e mondo. Dietro questa maschera, l’abito di Dea, Bontempelli individua ora un vuoto incolmabile e denuncia l’assenza di un’identità che possa essere pienamente compresa e conosciuta dall’individuo stesso e da coloro che lo circondano.

Così delineato, il tema dell’assenza di un’identità, è anche la base per quello che viene ritenuto il maggior successo teatrale dell’autore: Minnie la candida. Composta tra il 1925 e il 1927, la pièce deriva dall’adattamento teatrale di un racconto precedente Giovine anima credula, scritto nel 1924 a Parigi dopo aver assistito alla rappresentazione di R.U.R. (Rossum’s Universal Robots, 1921) di Karel Čapek. Il racconto non è però l’unica fonte della pièce, a cui contribuiscono anche Cataclisma, da cui riprende l’ambientazione della città moderna con i suoi surreali oggetti pubblicitari, e Storia d’un pranzo e d’una lettera, determinante per la metamorfosi espressiva del personaggio femminile. La vicenda drammatica, ambientata in una non precisata città italiana, prende avvio da uno scherzo di Tirreno riguardo dei pesciolini rossi che Minnie crede essere veri e Tirreno le dice essere “elettrici”, dando vita a un terribile equivoco volto a sottolineare la soggettività del reale che comprende anche la natura umana. Infatti, Tirreno aggiunge che i pesci non sono le uniche creature artificiali prodotte dagli inventori e che l’esperimento sarebbe culminato nella creazione di dodici esseri umani artificiali, sei uomini e sei donne, i quali si aggirano per la città inconsapevoli della propria natura artificiale e perciò indistinguibili dagli esseri umani – una loro anticipazione è già presente nella lirica Automi del 1916: cento specie mille nomi / tutti automi” –. Così, l’iniziale stupore di Minnie cede il passo all’angoscia e al terrore, sensazioni che la portano a sospettare dell’artificialità di ognuno intorno a lei e perfino di se stessa. Sospetti evidenti già a partire dalla lingua di cui l’autore la dota. Quella di Minnie è una lingua straniante che non rispetta alcuna regola grammaticale e risale ai primordi di un’espressione non regolata che ne compromette la comprensibilità. Filtrando le parole altrui attraverso il proprio codice espressivo, infatti, Minnie non coglie lo scherzo altrui e ciò sancisce, nel terzo atto, la sua scelta di suicidarsi.

L’ispirazione del dramma di Čapek è evidente a partire della figura dell’automa, utilizzata dall’autore ceco per interrogarsi sulla natura umana, ponendo il problema, attraverso il meccanismo dell’equivoco ripreso dalla commedia dell’arte, dell’umanizzazione dell’essere artificiale e dell’alienazione dell’uomo. Il modo in cui vengono rappresentati i robot è tuttavia differente. In Čapek, i robot sono presenti sin dal prologo e agiscono concretamente in uno spazio che è quello dell’isola, ambientazione tipicamente utopistica, e prendono coscienza del loro essere stati creati. Infatti, il loro atto creativo viene narrato, seppur parodisticamente, da Domin, quando racconta a Helena della differenza tra il vecchio Rossum e il nuovo Rossum; differenza volta a sottolineare una critica al sistema capitalistico a cui la fabbrica si è piegata con il nuovo Rossum che, a differenza dell’inventore mira solo al guadagno.

In Bontempelli, al contrario, la vicenda prende avvio dalla caratterizzazione che viene data di Minnie, il suo essere un’anima candida. Non a caso, già dal titolo, il termine candore assume una particolare sfumatura, chiarita dall’autore nel discorso commemorativo Pirandello o del candore del 1937: “Affacciandosi al mondo il candido non accetta e dapprima quasi non intende il giudizio altrui intorno alle cose. Conosciutolo, immediatamente ne vede fino all’ultimo le conseguenze, e senz’altro le denuncia, qualunque scompiglio ne possa accadere” (p. 817). La storia segue proprio questo schema narrativo: l’incomprensione, la non-accettazione e le estreme conseguenze, tralasciando ogni dettaglio relativo alla fabbricazione e alla vita dei dodici uomini. Inoltre, l’assenza di qualsiasi riferimento spaziale preciso rispecchia la condizione degli uomini fabbricati e favorisce un’atmosfera di sospensione dal reale, determinata anche dalla necessaria fissità della rappresentazione. A compensare un mancato ampliamento orizzontale dello spazio, pervengono però alcune note di regia in cui viene sfruttata la verticalità concessa al palcoscenico “Minnie, seduta al caffè afferma, guardando verso l’alto, all’interno a destra […]. Un intervento più invasivo è stato, invece, compiuto da Bontempelli per quanto riguarda la gestione del tempo: decide di annullare ogni discordanza tra tempo del narrato e tempo della narrazione, immettendo i molteplici atti temporali su cui gioca la voce narrante nella linearità del tempo scenico. Perciò, anche il suicidio finale di Minnie, causato dall’impossibilità di riconoscersi in quanto individuo, viene narrato dalla protagonista in termini presenti:

“Ecco è certo. Sì, ora sì, vedo chiaro, sono io, io. Non sono vera, io, no, no… sono una di loro, quelle povere… fabbricate. Lontano state, lontani… abbiate paura abbiate paura di me. E non lo sapevo… Vedere (si fissa ancora, poi il suo sguardo dallo specchio si trova a mirare come un punto lontano) Ma però, però… io mi ricordo tante cose vecchie. E allora? Sì, mi ricordo, la mia madre ricordo, e mi parlava della penisola Italia: io piccola ero. Ma, ma anche ricordare può essere finto. Sì, così: così hanno messo dentro, dentro, dentro insieme questo ricordare, quelli che m’hanno fabbricata, per ingannarmi di più. Si vede. Si capisce tutto. E non lo sapevo! Oh tante cosa ora capisco, tutto capisco io. Voi non potete sapere. Come fare ora? Come faccio? Oh tu perdonami, Skager… Ah ma no, sai, l’amore mio era vero, sai; quello no, l’ha messo lui fabbricato dentro in me: sono io, quello, l’amore mio, sai? Tutto vero l’amore mio. Il resto no, no: mio piccolo Skager, la donna tua non vera è, cosa fai tu della tua donna fabbricata tutta, ah… Hai paura… E non era colpa mia […]”. (p. 744)

La necessità del suicidio è, dunque, innegabile. E in questa necessità si inserisce un’altra e decisiva differenza con R.U.R., che termina offrendo la possibilità di creare una nuova umanità a partire dai robot, echeggiando così l’atto della creazione divina. Per concludere, dunque, parlare di una diretta derivazione di Minnie la candida da R.U.R. è errato, in quanto il tema dell’automa è precedente alla rappresentazione di Parigi a cui Bontempelli assiste, come già brevemente illustrato, e le differenze tra le due opere sostanziali.

Bibliografia

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Apparato iconografico:

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