Lolò o l’insostenibile pesantezza di essere una fata

Richárd Janczer

Uscirà a breve la nuova edizione di Lolò, il principe delle fate di Szabó Magda presso Edizioni Anfora, tradotto da Vera Gheno. “Romanzo fiabesco”, come recita il sottotitolo meseregény, non è però, come può sembrare all’apparenza, un libro solo per bambinә ma è giusto dare loro la precedenza in questa breve analisi.

Lolò presenta innanzitutto molti elementi fantastici quali fate, ciclopi, magie, pozioni, oggetti e animali parlanti, un unicorno (e che unicorno!), insomma tutto ciò che serve per mantenere la promessa d’incanto della fiaba. Il libro di Frau Szabó non è però sprovvisto della componente morale della favola: educa all’inclusività e alla convivenza nelle reciproche diversità, al senso di responsabilità e al potere magico della verità. Nel regno delle Fate i rappresentanti delle varie fazioni (ciclopi, nani, esseri acquatici, lucertole) convivono pacificamente e spartiscono equamente il potere, chi ne abusa paga sempre e dire la verità, nonostante il caro prezzo, non manca mai di ripagare.

Szabó ci ricorda inoltre che le fate non sono un’esclusiva dell’immaginario delle bambine, stereotipo assai recente, ma il suo Lolò risulta un degno erede di quella lunga stirpe che trova in Csongor és tünde di Vörösmarthy Mihály il suo più illustre esponente. Non è certo un caso che entrambe le opere riprendano l’elemento dell’albero magico, così caro alla cosmogonia degli antichi ungari e che l’autrice si richiami ulteriormente a questo patrimonio pagano immaginando “la volta celeste come i pali di una tenda” (p.30).

Se il paragone con Harry Potter, suggerito da Antonella Cilento, la postfatrice del libro, può sembrare azzardato, già a una prima lettura trova notevoli conferme. Difficile non notare un parallelo tra due pozioni di Szabó e le varianti rowlinghiane: il nonvideor rende invisibili come il mantello dell’invisibilità ma temporaneamente, il convertor sembra invece un preparato più stabile della pozione Polisucco. La comune scelta del latino è altrettanto interessante e denomina tutte le pozioni di Szabó come gli incantesimi della Rowling. I paralleli sono innumerevoli: la macchina di Pietro per incanto si comporta come l’autobus Nottetempo e il mago Aterpater si dimostra in grado di utilizzare un incantesimo di appello simile ad Accio, può infatti evocare lo scettro della regina da un’immensa distanza, il capitano Amalfi prende le sembianze di un cane, l’insegnamento della magia avviene a scuola e, come il mondo magico, anche il regno delle Fate è precluso agli umani, le fate devono perciò assumere il nonvideor quando interagiscono con noi. A livello narrativo, vi sono analogie anche tra le vedute aeree, quasi cinematografiche, a cavallo di animali fantastici o mezzi umani animati, per non parlare dell’orfana Beata, che ha la possibilità di vedere l’immagine dei genitori morti tramite la magia.

Vi sono altri due elementi che mettono in risalto Lolò nel maremagnum della letteratura per l’infanzia: la traduzione e l’apparato illustrativo. Vera Gheno, che ha tradotto molte opere di Szabó Magda, si è resa protagonista anche questa volta di brillanti soluzioni. I nomi sono fantasiosi e “parlanti” come nell’originale: Lolò (al posto di Lala, le cui “a” ungheresi sono diverse da quelle italiane), Lardello (al posto del più diretto Grassottello per tradurre “Dagi”) o Scaldone e Pomatina. Lo stile della traduzione rispetta inoltre le variazioni di registro dell’originale in tutte le sue sfumature. Le illustrazioni di Ivett Lénárt e Réka Imre sono lodevoli: con linee minimal e bicrome, che evitano il tono digitale e artificioso tipico di questo genere di letteratura, riassumono ironicamente i capitoli che precedono e i loghi esemplificativi, invece, decorano i margini laterali del testo, un lavoro magistrale che preserva un’atmosfera tipicamente ungherese e folkloristica.
Una volta messi a letto i bambini, possiamo cogliere la lunga scia di briciole hänsel-greteliane che Szabó Magda ha celato per gli adulti all’interno del suo universo fatato. L’anno è il 1965, in piena epoca Kádár: l’autrice ha già vissuto un decennio di silenzio forzato da parte del precedente regime e sa che, se vuole muovere le sue critiche, deve farlo in maniera velata. L’ulteriore bellezza del libro sta proprio in questo messaggio in codice. Ma per quale motivo le fate e gli unicorni e la loro costante felicità sono così stucchevoli, perché proviamo un certo disagio nel loro mondo? Perché il regno delle Fate è il regno del kitsch! Ne L’insostenibile leggerezza dell’essere Milan Kundera afferma che:

[…] l’ideale estetico dell’accordo categorico con l’essere è un mondo dove la merda è negata e dove tutti si comportano come se non esistesse. Questo ideale estetico si chiama Kitsch. […] Il Kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile.” (VI, 5)

All’interno di questo sistema kitsch, Lolò è l’ingranaggio che salta, il meccanismo che impazzisce: il fanciullo è insonne, disobbedisce, evade di continuo ed è costantemente incuriosito dal proibito, dal mondo umano così vario e reale nel suo ampio spettro di emozioni. La causa è esplicitata nel libro, e per questo non verrà svelata qui, ma un’ulteriore riflessione è necessaria. Lolò è l’alterità che mostra l’alterità del sistema, c’è qualcosa di marcio nel regno delle fate ed egli l’ha compreso; la sua amletica ricerca della solitudine, le sue marachelle rivelano un’inquietudine più profonda.

Quando Amalfi si “accorda categoricamente con l’essere”, durante il suo viaggio verso il confine per riportare a casa Lolò, e descrive fanciullescamente la natura ed esprime la gioia stessa dell’esistere, non è forse al contempo tremendamente kitsch? O Aterpater, quando riprende intertestualmente il Candide (e Leibniz), per ingannare Iris,

Vivremo bene, come le famiglie che vivono nel migliore dei modi possibili nella Terra delle Fate. Vedrai come sarà piacevole la vita. (p.121)

non sta forse riprendendo gli slogan di obbligatorio ottimismo, tanto in voga negli anni della Mitteleuropa staliniana? Il processo farsa che l’unicorno Gigi subisce, nel quale, umiliato e oltraggiato, si ritrova costretto ad affermare atroci falsità sulla propria persona, non ricorda forse al lettore quella silente moltitudine di intellettuali liquidati dalle purghe staliniane dell’era Rákosi? E il suo breve esilio dal regno delle Fate non ricorda forse quello di molti ungheresi dopo la rivoluzione del ‘56?

Aterpater, figura ctonia e mefistofelica la cui risata si tramuta in serpente e che sputa vermi dalla bocca, appena preso il potere assoluto è in grado di ascoltare tutto e tutti nel paese, persino il dialogo privato tra Omicron e Giustino, una situazione lampante anche per chi non abbia mai letto Orwell o Esterházy (L’edizione corretta di Harmonia Cælestis). Non è di certo un dettaglio irrilevante che l’epidemia di cui parli Brill sia l’apatia generale conseguente alla sua ascesa.

Non si fraintenda, il regno delle Fate non è una repubblica socialista ma la moltitudine di echi all’interno del testo è lampante. Il loro mondo non è così perfetto come sembra, può diventare un reame dell’orrore nell’arco di qualche giorno e infatti l’intreccio, dopo il putsch di Aterpater, assume tinte decisamente noir e una struttura molto simile a quella delle tragedie shakespeariane. Non ci deve dunque stupire che la regina Iris ricordi figure della tragedia greca come Andromaca e non appartenga al mondo delle fiabe ma al patrimonio classico di cui l’autrice era una grande conoscitrice, come dimostra un’opera quale Il momento (Creusaide). Seppure non sia una figura di matrice femminista, il ricatto che Iris subisce da parte di Aterpater appartiene alla stessa natura patriarcale che ha prodotto mostruosità del mondo fin troppo reali quali, per citare un esempio odierno, Weinstein.

[…] chi scaccia via chi dice la verità non ha diritto a nessun tipo di autorità (p.234)

È questo il monito che Brill (Szabó) lancia ad Aterpater (chiunque ricopra una posizione di potere), la massima dal sapore classico scagliata come anatema a entrambi i mondi. Gli indifferenti devono assumersi le proprie responsabilità e chi ha abusato del potere, diabolicamente o per tragica costrizione, deve rinunciarvi e Iris lo farà, senza accecarsi ma con la coscienza serena, Aterpater invece non sarà eliminato ma costretto a rieducarsi.

La potenza icastica di Frau Szabó è perciò sconcertante, con l’inganno introduce il lettore, dandogli la mano, in un mondo di fate sdolcinate e ingenue mentre sotto ai nostri occhi ha strutturato una sotto-trama sofoclea e shakespeariana, costringendo adulti e piccini a riflettere su questioni fondamentali. Grazie alla sua maestria scrittoria, la morale nota ma ignorata che possiamo trarne (soggettivamente parlando), risulta rinvigorita di nuova linfa: servire il bene ripaga sempre, anche a costo di sacrificare noi stessi, risiede esattamente in questo la felicità vera, il fine ultimo dell’essere umano.

 

Apparato iconografico:
Le illustrazioni sono state fornite, per gentile concessione, da Edizioni Anfora. ©Tutti i diritti sono riservati.
Illustrazioni contenute in Magda Szabó, Lolò, il principe delle Fate, Milano, Anfora Edizioni, 2020.