Episodio della vita e dell’esilio volontario della scrittrice croata Dubravka Ugrešić

Marianna Kovacs

Attraverso la vetrata vedo la cima rotta della torre della chiesa di Kaiser-­Wilhelm. Ma non c’è nessuno che possa vedere me.” (p. 333)

Le due frasi compaiono nell’ultimo capoverso del libro Il museo della resa incondizionata di Dubravka Ugrešić. Frammenti strappati e invisibilità sono le parole che caratterizzano lo stile di scrittura e la tematica dell’autrice croata. La raccolta di citazioni, l’album fotografico, le improvvise storielle, i brevi racconti, i ritratti e la descrizione di mostre una diversa dall’altra compongono i capitoli del libro. In certi momenti ricorda Diario dalla galera di Imre Kertész. La forma frammentaria suggerisce l’idea che nell’epoca in cui viviamo sia impossibile scrivere un’opera unitaria e organica, dal momento che il mondo è frantumato in mille pezzi come la vita stessa. “Rilke da qualche parte ha detto che la storia di una vita tumultuosa può essere raccontata soltanto a pezzetti e frammenti dico a Miloš” (p. 160) – scrive l’autrice.

Non possiamo non leggere l’opera come autobiografia, memorie o documento della vita da emigrata della scrittrice, che durante le Guerre jugoslave abbandonò il proprio paese, un destino simile a quello di Slavenka Drakulić, anch’essa croata.

“L’Europa era piena di gente come me. Dovunque incappavo in compaesani, bosniaci, croati, serbi. Le nostre storie erano diverse, ma si riducevano tutte alla stessa. Io, in realtà, distrussi da me la mia “casa”. Capii che “guerra e dittatura” sarebbero state sorelle, cosa che il vecchio Remarque sapeva già. Sì, scrissi qualcosa che non avrei dovuto. Lo feci, lo ammetto, più per una mia incapacità di adeguarmi alla menzogna generale, che per un desiderio di eroismo. Ero nell’età in cui la menzogna, in quanto strategia legittima, è sopportabile soltanto in letteratura, e non più nella vita.” (p. 206)

Ugrešić aveva quarantacinque anni quando dovette abbandonare una patria che allora già non esisteva più. Perché a scuola spiegavano invano agli scolari con l’aiuto dell’abecedario che i bambini serbi, croati, macedoni e bosniaci sono buoni amici anche se ad un certo punto questi  buoni amici hanno cominciato a spararsi. La patria in cui questi bambini crebbero si era rivelata essere un’illusione, un meccanismo artificiale e  traballante che infine si era disgregato in sette pezzi. Intanto però scorreva sangue, crollavano  case e si dissolveva la memoria in modo tale che all’emigrato non resti nemmeno la consapevolezza di avere ancora delle radici da qualche parte.

L’autrice mette insieme tasselli di istantanee, umori, fotografie, citazioni, pensieri, suoni, gingilli del mondo materiale, “la spazzatura del quotidiano“. Troviamo un tempo e uno spazio abbandonati e uno nuovo, quest’ultimo forse nemmeno realmente conquistato. È costante  la lotta con il fantasma dell’identità perduta, con l’oblio e con la vanità per salvare la memoria di un mondo in cui l’uomo, e tramite lui la sua memoria, venivano annientati consapevolmente. La battaglia quotidiana non riguarda soltanto il passato, ma anche il presente, l’aspra solitudine, l’essere un’estranea, le difficoltà e a volte l’impossibilità di inserimento, la ricerca di un’identità e di una casa.

Non è un caso che nello spazio della dislocazione e dell’estraneità indomesticabile l’emigrato noti dei visitatori che in un certo senso sono altrettanto fuori luogo: “Nei giorni piovosi i visitatori sono pochi. Allora si possono incontrare tipi strambi, solitari, ubriaconi, coppie con sacchetti di plastica che, chissà perché, somigliano a europei dell’Est.” (p. 152)

Nel libro l’intercultura e l’esperienza dell’eterogeneità temporale e spaziale sono legate a Berlino che è “una città mutante, travestita” (p. 156), “schizofrenica” (p. 352), “un non­-place” o, meglio, “un before­-after place, una città museo” (p. 311), dove il sovrapporsi dei vari spazi fa deviare anche il tempo misurabile, il tempo storico: “I berlinesi arrivano volentieri in ritardo e, in generale, c’è qualcosa che non quadra con il tempo. Negli autobus berlinesi si possono vedere le più vecchie vecchiette del mondo. È come se si fossero dimenticate che bisogna morire.” (p. 158)

I mercatini delle pulci di Berlino diventano  spazi vissuti dell’interculturalità e veri luoghi dell’identità e degli esercizi di memoria con la possibilità di ripensare la propria cultura quando è inserita in un’altra. La madre del bosniaco Kašmir confeziona centrini con la scusa di venderli al mercatino delle pulci. “Lei lì fa solo finta di vendere, in realtà non vede l’ora che passi qualcuno dei “suoi”” (p. 317). Non stupisce che i poliziotti che la multano non lo capiscano. “Non riusciva proprio a spiegare ai poliziotti tedeschi che sua madre non si reca ai mercatini per vendere ma per incontrare la “sua” gente, per chiacchierare, alleggerirsi l’anima. “Così non vale! Guardala, ha ripreso a fare l’uncinetto …” dice Kašmir e fa un cenno con la mano.” (p. 317)

Il mercatino è “l’immondezzaio del tempo” (p. 322) in cui si ricompone il collage temporaneo  delle differenze culturali, i frammenti della storia a partire dai vecchi album fotografici fino alle divise militari riappacificate. Per i profughi che vivono negli Heim, (già la parola è estranea), la strada e il mercatino delle pulci rappresentano spazi dove possono portare in scena la loro presenza socio­ culturale e la loro comunità immaginata. “Un paese che non c’è più, la Bosnia, qui, a Gustav­-Meyer­ Allee, ogni sabato disegna di nuovo in aria la propria mappa. La mappa balena per un attimo, poi scompare come una bolla di sapone.” (p. 324)

Il mercatino delle pulci è un luogo volatile mentre il museo colleziona e accumula per esempio il tempo storico. Il museo della resa incondizionata citato nel titolo del libro era un museo bellico sovietico a Berlino visitabile tra il 1967 e 1994  che, nel corso della lettura, diventa lo scenario  della capitolazione culturale e della memoria. In questo spazio vuoto e senza visitatori il passato viene letteralmente ibernato. Sono i conterranei della narratrice che trovano questo luogo non luogo, proprio coloro che devono reinterpretare il loro rapporto con lo spazio e con la terra. Per i profughi jugoslavi il bar del museo diventa uno spazio interculturale che può essere occupato, può essere vissuto.

““Noi non avremo mai un museo come questo” dice Zoran.
“E come potremmo, se il nostro paese è sparito?” dice Mira.
“Per questo tutti noi siamo pezzi da museo ambulanti” dice Zoran.” (p. 328)

In mancanza di una pratica istituzionale della memoria collettiva, i profughi stessi diventano portatori ed esecutori della memoria.

Il libro fa percepire molto dolore, senso di mancanza e di perdita, ma allo stesso tempo mostra la lotta della narratrice per trovare il proprio posto, il proprio sé e la propria lingua. È sufficiente imparare le parole di una lingua per trovare una nuova casa? È sufficiente portare con sé i piccoli oggetti e gli album fotografici per conservare la propria vecchia casa? Una casa che non significa soltanto tempo e spazio, ma cultura,  identità, ricordi e tutto ciò che ci fa dire che “tutto esiste da qualche parte.” (p. 225)

Ugrešić nonostante le tematiche molto serie e complesse riesce a farci sorridere in più occasioni. Come quando in un ristorante italiano in Germania le capita un cameriere apparentemente italiano perché di carnagione scura.

“Non deve sforzarsi con il tedesco” mi interrompe parlando un croato dal forte accento bosniaco.
“Oh! Lei di dov’è?” domando serena al mio conterraneo.
“Iraniano.”
“Come … iraniano?” “Ho studiato a Sarajevo.”
“Quindi non è bosniaco, ma iraniano?”
“Sì, ma pssst! Qui mi spaccio per italiano.”” (p. 242)

Gli appassionati di letteratura russa che decidono di leggere questo libro apprezzeranno senza dubbio i tanti rimandi e riferimenti dell’autrice esperta in questo ambito. Troviamo citazioni da Gogol’, Sklovskij, Brodskij, Vaginov, Lev Rubinstejn, Nabokov e un intero capitoletto è dedicato all’arte di Il’ja Kabakov. Lei lo conosce ancora negli anni Ottanta, più tardi lo rivede in uno spettacolo berlinese:

Lo spettacolo di Kabakov tirò in me il filo di una poco chiara infelicità, di un trauma “esteuropeo”. “I traumi subiti negli anni della formazione non si dimenticano mai“ ha detto una mia amica e ha aggiunto: “C’è chi la chiama nostalgia.”” (p. 67)

 

Bibliografia
Dubravka Ugrešić, Il museo della resa incondizionata, Milano, Bompiani, 2002

Apparato iconografico 
Immagine in evidenza: https://www.asymptotejournal.com/interview/an-interview-with-dubravka-ugresic/ 
1. Henri Cartier­-Bresson Dimanche sur les bords de Seine, France, 1938 https://www.metropolitano.it/cartier-­bresson­-mostre­-fotografiche/
2. https://fineartbiblio.com/artworks/ilya­-kabakov/1694/the-­collage­-of­spaces-­10 
3. Mario Dondero – Due giorni prima della caduta del muro di Berlino, 1989 https://www.artribune.com/attualita/2013/07/castelbassocivitella-­la­transumanza­-dellarte/attachment/42don/