Nel profondo dell’identità linguistica russa oggi: “Russo lingua non materna” di Pavel Arsen’ev

Marianna Di Labbio

Pubblicato nel settembre 2024 dalla marchigiana Seri Editore per la collana poetica Le Piume, Russo lingua non materna (“Russkij kak nerodnoj”, 2024) di Pavel Arsen’ev, con traduzione di Cecilia Martino e Marco Sabbatini, è una tagliente riflessione sull’identità russa di oggi. Prendendo le mosse da considerazioni linguistiche, il testo si espande con prepotenza a livello identitario, culturale e soprattutto politico, intrecciando la storia personale dell’autore alla storia collettiva dei molti russi emigrati all’estero e di quelli rimasti in patria.

La raccolta include circa quaranta componimenti raggruppati in sette diversi cicli tematici legati alla biografia del poeta. Dal ciclo sulla storia della letteratura russa Versi per una storia della letteratura russa, in cui si esprimono le sperimentazioni risultanti degli studi e delle ricerche di Arsen’ev – laureatosi prima in Teoria della Letteratura e addottoratosi successivamente con una tesi sulla letteratura sovietica degli anni Venti –, passando per i Versetti ginevrini e Lost Deadlines, ovvero è possibile fare domanda fino al, in cui riecheggiano le esperienze di ricerca presso l’Università di Ginevra, o Versi della Quarantena, testimonianza del periodo pandemico. Si termina infine con il ciclo che dà il titolo all’intera raccolta, in cui le riflessioni di stampo linguistico e identitario si aggravano in luce degli eventi politici più recenti con l’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa. I cicli seguono un ordine cronologico, includendo versi scritti a partire dal 2017 fino ai lavori più recenti del 2022. Accanto a versi già apparsi a partire dal 2018 su riviste russe o pubblicati in volume in inglese (Reported Speech, 2018) o in italiano (Lo spasmo di alloggio, 2021), Russo lingua non materna include anche testi del tutto inediti.

Link libro: https://www.serieditore.it/catalogo/le-piume/russo-lingua-non-materna/


L’intrecciarsi della dimensione personale e biografica con quella culturale e identitaria, quindi politica, si evince sin dalla scelta del titolo. Oltre a suggerire un netto distacco dalla lingua russa, che Arsev’ev in luce del suo trascorso biografico e di quella che definisce “geoposizione linguistica” (p. 167) sceglie di rifiutare come “non materna”, il titolo evoca alle orecchie del parlante russofono implicazioni culturali e politiche non indifferenti. Come spiega lo stesso autore nella ricca introduzione alla raccolta, la denominazione “russo lingua non materna” indica una specializzazione nell’insegnamento della lingua russa rivolto specificamente ad apprendenti provenienti dalle ex-repubbliche sovietiche: una “formula rivelatrice delle ambizioni imperial(istiche) del nostro paese, scolpita nel sistema educativo e in particolare nel diploma di un neolaureato” (p. 19). Rivolto quindi a un neolaureato come Arsen’ev che nel 2008, anno dell’invasione russa della Georgia, consegue il titolo formativo in questione. A testimonianza dell’impatto di tali riflessioni sul pensiero e sulla poesia dell’autore, una scansione del diploma cartaceo è posta in apertura alla raccolta, insieme a una sorta di versione annotata in versi del testo istituzionale, ovvero Russo lingua non materna (diploma di laurea) (pp. 27-31).

L’attenzione di Arsen’ev alla lingua e al suo rapporto personale con essa emerge anche nel ciclo Lost Deadlines, in cui ogni componimento si completa con l’indicazione di una o più specifiche “lingue di lavoro”: non solo russo, inglese, tedesco o francese, ma anche una “lingua dei sentimenti” (p. 83), un “russo come lingua non materna” (p. 87), una lingua “<indecifr.>” (p. 89) o un “inglese con forte accento russo” (p. 93). Altrettanto interessante per il legame tra lingua e identità russa è Schema russo su tastiera (pp.149-157), uno dei testi collocati alla fine della raccolta e composto all’indomani dello scoppio della guerra contro l’Ucraina, nel febbraio 2022. Qui Arsen’ev, già da tempo in Europa per la sua “emigrazione ibrida” (p. 121), o meglio “rilocalizzazione” (p. 121), si serve di un inconveniente tecnico della tastiera del suo computer come metafora per parlare di un rapporto complesso con la lingua d’origine durante l’esperienza dell’emigrazione:

ma chissà perché il tecnico ci ha chiesto

where are you from?

gli ho risposto che è lunga da spiegare,

ma in fin dei conti da Leningrado,

per semplicità sono quel che si definisce un russo,

anche se avrei fatto delle precisazioni

per esempio, che non è nel senso

di come si sente all’aeroporto,

di quella lingua in cui si urla indistintamente

ai bambini e alle coppie,

in genere non lo esprimo ad alta voce,

lo tengo per me, nel profondo,

sotto controllo” (p. 149)


Altra caratteristica distintiva dello stile di Arsen’ev, artista, critico e redattore della rivista “Translit”, oltre che poeta, è l’accostamento della parola e dell’immagine all’interno dello spazio poetico, facendo della multimedialità un elemento cardine del suo stile. Nel tentativo di concretizzare e dare forma materiale al testo, lo scrittore si serve di supporti figurativi e performativi, non disdegnando anche l’uso del linguaggio digitale. Così, accanto ai testi in versi si affiancano immagini in grado di arricchire la lettura di riferimenti extra-testuali. Ad esempio Puškin (reazione a una provocatoria mostra di arte critica contemporanea) si completa con un’immagine tratta dalla “provocatoria” mostra di Dmitrij Gutov “Russia per tutti” (2011). Majakovskij usato in vendita (pubblicità contestuale), invece, rappresenta una sorta di performance digitale (disponibile on-line) restituita poi in forma scritta, in cui il linguaggio della rete circonda il poeta di seconda mano del titolo. O ancora, in Instagram (commenti al post con foto, in cui sono immortalati versi di Vsevolod Nekrasov, installati nel passaggio Tret’jakovskij) il lettore accede in forma visiva, oltre che testuale, a uno spazio a cui è abituato ad entrare digitalmente come quello dei social network.

Il linguaggio digitale, al pari del linguaggio burocratico e istituzionale o di quello più quotidiano e volgare, compare spesso nei versi della raccolta, facendo implodere i confini della lingua poetica che, in Arsen’ev, è più che mai concreta e reale. In effetti, in Ultima lettera a San Paolo (2018) è possibile rintracciare una sorta di dichiarazione programmatica dell’anti-poetica dell’autore:

Ha smesso di interessarmi la poesia e mi è diventata interessante la lingua

dicono che dia lo stesso accesso alla realtà che i sensi fisici

mentre i poeti non fanno altro che smerciare polisemie e scandalo sintattico

entro i limiti della legge federale” (p. 69)

Questo rifiuto di un linguaggio poetico tradizionale e la predilezione per una lingua autentica e prosastica rivelano l’intento del poeta di realizzare una narrazione fattuale e spersonalizzata della realtà, volutamente straniante e distanziante, in continuità con quella tradizione concettualista e post-modernista del secondo Novecento russo. A tale scopo, Arsen’ev ricorre spesso a citazioni da testi di vario genere, senza lasciare spazio per spiegazioni di alcun tipo, se non quelle deducibili dal testo stesso. Dalla Costituzione della Federazione Russia, citata minuziosamente in Secondo la costituzione (pratica filologica di lavoro con i documenti) (pp. 33-35) ai commenti degli utenti a un post social nel già menzionato Instagram. L’autore non disdegna nemmeno le voci più turpi e volgari, come in Puškin, in cui il padre della lingua russa, divenuto oggetto dell’invettiva di un “russo purosangue” (p. 41), viene incluso nel novero dei “vermi elevati a geni” (p. 41). In questa manovra di montaggio del detto altrui secondo logiche non sempre di facile deduzione, in un’operazione di “ready-written” (o “ready-said”) capace di elevare a materiale poetico il materiale linguistico del quotidiano, il poeta si appella anche alle parole dei suoi amici nel ciclo Nuove “parole dei miei amici” e a quella degli stessi traduttori, in un gioco di specchi metaletterario in cui il lettore si ritrova spaesato nel tentativo di porre confini tra le voci che legge, come nella poesia II. (pp. 121-123).

Tale complessità nell’esperienza di lettura è stata preservata anche nella traduzione che, come dichiarato nella nota conclusiva al testo, mira a riprodurre lo stesso effetto dell’originale russo, centellinando gli apporti paratestuali delle note a piè di pagina, previste solo quando strettamente necessarie e sempre in accordo con l’autore.

Nella poesia di Arsen’ev, volutamente respingente, il lettore sembra fare esperienza di quella lontananza che l’autore percepisce rispetto alla propria lingua d’origine. Un’operazione di straniamento linguistico che, non a caso, passa proprio dalla poesia, sempre scritta in un linguaggio straniero, e quindi non materno, anche per Šklovskij, come ricorda Arsen’ev stesso. Questo sradicamento linguistico che diventa inevitabilmente sradicamento identitario conduce il poeta a un’estrema conclusione concettuale: “il russo non ci è sempre stato ‘lingua non materna’?” (p. 24).

 

Apparato iconografico:

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