Marijana Puljić
“Parlarsi come, poi? In italiano, non ci sono dubbi, ma l’italiano non è la loro lingua, è un’incudine, un cielo buio, un ricatto. Dovranno impararlo, questo è sicuro, dovranno leggere Dante, Manzoni e magari anche poesia, Foscolo, Pascoli.” (pp.235)
Il figlio della lupa, scritto a quattro mani da Francesco Tomada e Anton Špacapan Vončina, è stato ripubblicato dalla casa editrice Bottega Errante lo scorso febbraio in una veste grafica nuova all’interno della collana Estensioni. L’opera, ambientata in una realtà di confine, ovvero quella di Čepovan nell’odierna Slovenia, tematizza il tema della resistenza e della silenziosa lotta contro il regime italiano che si impone cercando di cancellare l’identità culturale e linguistica di un popolo, quello sloveno, iniziando dal “divieto di utilizzare la lingua slava nei ritrovi pubblici e per le strade di Chiapovano. Anche nei negozi di qualsiasi genere deve essere utilizzata solo la lingua italiana” (pp. 57-58) nonché l’imposizione di ulteriori leggi autoritarie e la repressione violenta di qualsiasi forma di dissenso.
Link al libro: https://www.bottegaerranteedizioni.it/product/il-figlio-della-lupa/
Il romanzo segue la storia di Srečko Kofol, un bambino di undici anni, orfano di madre, e della comunità di quella che è divenuta Chiapovano, sottoposta a continui cambiamenti geopolitici che a partire dagli anni Venti del secolo scorso diventa parte del Regno d’Italia e vede l’italianizzazione forzata diventare la propria quotidianità. Questa, tuttavia, non si limita ad essere un’imposizione linguistica di superficie, ma uno strumento di annientamento culturale che inizia dai banchi di scuola. Quest’ultima diviene uno degli strumenti principali di repressione, un laboratorio ideologico in cui si tenta di estirpare ogni traccia della cultura slovena e di inoculare, fin dalla giovane età, un senso di appartenenza alla nazione italiana che inizia tramite il riconoscimento del proprio nome italiano. Viene narrato un fatto avvenuto in una classe sulla cui parete alle spalle della cattedra, oltre al crocefisso si trovano anche le fotografie del re e del Duce. Nell’aula vi sono diciotto banchi di scuola per i ragazzini provenienti da Čepovan, ma anche dai paesini limitrofi quali Puštale, Dol, Lokovec e Lazna. La classe viene visitata dal tenente Angelo Ottavi, il nuovo comandante del presidio militare di Čepovan, e dal tenente Giulio De Paolis affinché ci si accerti della giusta educazione su temi legati all’Italia degli scolari. Una visita apparentemente tranquilla, durante la quale il tenente, oltre a porre domande sulla cultura italiana generale, ci tiene anche ad apostrofare gli studenti con i nomi italianizzati: “Cominciamo a imparare il giusto nome. Tommaso, tu sei Tommaso” (p. 82). L’incontro si risolve nella destituzione della maestra Majda in quanto i ragazzi dimostrano di mancare delle fondamentali conoscenze quali il nome del re o i capoluoghi delle regioni.
Il nucleo familiare Kofol, costituito dal bambino protagonista, dal nonno Miroslav e dal padre Karel, è segnato da un evento luttuoso avvenuto nel decennio precedente l’inizio della narrazione: la morte di Helena, madre del protagonista e maestra del villaggio. Colpita improvvisamente da una malattia sconosciuta, la donna è al centro di una leggenda locale secondo la quale si sarebbe trasformata in una lupa dal manto bianco e che Srečko pensa di riconoscere della figura della Nena. Proprio come ogni paese è arricchito da leggende proprie, così lo è anche Chiapovano, e la sua storia si lega alla figura di questa lupa bianca che abiterebbe i boschi intorno al paese. Come viene spiegato da Nono a Srečko, certe volte la lupa si manifesta nella sua ferocia e cattiveria, arrivando per esempio a sbranare le bestie, e altre invece svela il suo lato protettivo nei confronti degli abitanti, dei quali si prende cura. Cresciuti all’interno di questo contesto folklorico, i bambini, durante i loro giochi, recitano filastrocche incentrate sulla figura della Nena, introducendo così il lettore al contenuto che segue:
“Nena Nena ti conosco / sei discesa giù dal bosco / Io ti sento camminare / e non riesco a respirare / Salti e balzi tra gli orrori / hai deciso chi / DIVORI?”
Il romanzo costruisce dunque un intreccio inestricabile tra la realtà storica e l’immaginario popolare, sfumando volutamente i confini tra verosimile e fantastico. In questo contesto, l’elemento magico non solo arricchisce la dimensione narrativa, ma amplifica il colore attribuibile agli eventi narrati nel romanzo e datati a febbraio 1931, contribuendo a una restituzione emotiva del passato in cui le memorie individuali e collettive si tramandano da generazione in generazione nei piccoli centri rurali.
Il romanzo tratta anche della riflessione legata alla memoria storica, dei confini – non solo geografici, ma anche culturali – e della forza che, nella sua fragilità, può scaturire dalla comunità riflettendo il coraggio dei singoli, degli uomini e delle donne che, nel loro piccolo, resistono ai soprusi, agli ordini e alle imposizioni, mantenendo viva la propria lingua, le proprie tradizioni e la propria umanità nei tempi in cui non ci si può abituare “a un nome diverso” (p. 93) senza lasciarsi completamente annientare. Proprio a questa resistenza sembra essere legata la potenza simbolica del titolo: Il figlio della lupa, che da un lato rimanda a una figura mitologica e selvaggia e anche a un legame ancestrale con la terra e la cultura, che nessun regime potrà mai cancellare completamente, ma dall’altro lato richiama alla memoria l’organizzazione dell’Opera nazionale balilla, attiva durante il ventennio fascista e che definiva i bambini e le bambine più piccole che vi facevano parte proprio “Figli/Figlie della lupa”. La lupa è anche simbolo di una protezione naturale e istintiva, un richiamo a una forza primitiva che, anche nelle circostanze più oscure, non smette di lottare per la sopravvivenza. Čepovan in questo modo attualizza ed eleva a tema universale l’importanza della resistenza e della conservazione della propria identità culturale: vivere una terra di confine diventa una metafora per raccontare la realtà di chi abita in una zona in perenne transizione, tra la necessità di preservare una cultura e una lingua e l’imposizione di una cultura dominante che cerca di schiacciare ogni forma di diversità. Oltre alla forzata italianizzazione dei nomi, viene proibito di parlare o di cantare in lingua slava per le strade e nei ritrovi pubblici, nei negozi si deve comunicare in italiano, i libri in sloveno sono sostituiti da quelli in lingua italiana così come i maestri locali. Questi ultimi vengono trasferiti e stazionati in Italia, mentre altri insegnanti originari della Penisola arrivano nella valle. Tuttavia, la comunità di Čepovan resiste: nelle case si parla la lingua madre, i ritrovi nelle trattorie per cantare in sloveno sono all’ordine del giorno mentre ai bambini viene assegnato l’importantissimo ruolo di sentinelle che devono stare attenti all’arrivo dei carabinieri. La cantina della maestra Majda invece diventa il centro di lettura dei classici sloveni da Simon Gregorić a Ivan Cankar.
In questo clima di tensione politica e sociale, una riflessione profonda viene riservata anche al rapporto tra padre e figlio, che come si evince dalle prima pagine, si presenta teso e pieno di incomprensioni. Karel, rimasto vedovo della donna che amava troppo presto, si ritrova a ricoprire un ruolo per il quale non solo non è pronto, ma che è anche in opposizione allo spirito ribelle del figlioletto. In quest’ultimo inizia a rivede gli occhi della defunta moglie, e per quanto cerchi di domare la natura del figlio, non consegue risultati positivi tanto da arrivare, in un momento di rabbia, a ritenerlo responsabile della morte di Miroslav. Il legame tra i due che sembra spezzarsi irrimediabilmente, in verità si rafforza grazie all’ennesimo dolore che vivono.
Con questa fusione di storia, politica e miti popolari, tornano alla luce i motivi e le dinamiche di resistenza e di sopravvivenza che in un sistema di oppressione si impugnano con atti di coraggio individuale e collettivo, invitando il lettore a interrogarsi sulla memoria storica e l’importanza di preservare quanto è stato, affinché non venga ripetuto. Come affermato da Alberto Floramo “Da queste parti capita che i gridi siano solo sussurri, ma restano comunque potenti invettive contro l’arroganza del potere, oggi come ieri amante dei muri, distruttore dei ponti. Un libro testimonianza”.
Apparato iconografico:
Immagine 2 e di copertina: https://ro.wikipedia.org/wiki/Čepovan#/media/Fișier:Razglednica_Čepovana_1907.jpg