Federica Florio
“Ho appena sentito dei bambini giocare alla guerra, non ai nazisti, ma agli ucraini.” (p. 76)
Sono parole taglienti quelle che Natal’ja Ključarëva scrive nel suo diario in seguito all’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina del 24 febbraio 2022. Parole forti e incredule, pregne di sconforto. Eppure, c’è anche una buona dose di coraggio nella diffusione dei pensieri più intimi della scrittrice, raccolti in Dnevnik konca sveta (“Diario della fine del mondo”, 2023): un’azione che potrebbe costare cara, soprattutto dal momento che il 4 marzo 2022 in Russia è stata approvata una legge che di fatto punisce con la reclusione chiunque decida di criticare apertamente l’esercito, la così detta specoperacija (operazione militare speciale) o il governo. È evidente che alla base di questa pubblicazione ci sia una forte scelta etica, una presa di posizione a favore dei diritti civili e politici. Diario della fine del mondo appare dunque come il tentativo di eludere i divieti imposti dal regime e di mostrare la propria presa di posizione, ed è per questo che Stilo Editrice ha fatto sì che a ottobre 2023 l’opera ottenesse spazio nella collana Pagine di Russia, grazie alla traduzione e alla cura di Massimo Maurizio.
Natal’ja Ključarëva, ad ogni modo, non è un nome sconosciuto al pubblico italiano. Classe 1981, è poetessa, prosatrice, giornalista e autrice di programmi per l’infanzia. Il suo primo romanzo, Rossija: obščij vagon (“Un treno chiamato Russia”, 2006) è stato tradotto e pubblicato in Italia nel 2011 da Atmosphere Libri dopo essere stato acclamato dalla critica. È risultata, inoltre, vincitrice di premi letterari in Russia, quali “Jurij Kazakov” e “Debjut”. Nel 2009 SOS (“SOS”, 2009), il suo secondo romanzo, ha ottenuto un posto nella long-list del premio “Nacional’nyj bestseller”.
Link al libro: https://www.stiloeditrice.it/scheda-libro/natalja-kljuoareva/diario-della-fine-del-mondo-9788864792842-230.html
Diario della fine del mondo copre l’arco temporale che va dal 24 febbraio 2022 al dicembre dello stesso anno. Undici mesi in cui sembra cambiare tutto, dove qualsiasi certezza viene meno, dove la società russa si divide in due. La data stessa del 24 febbraio funge da punto di svolta, segnando il confine tra un “prima” e un “dopo”. Le riflessioni dell’autrice, scritte sia in prosa che in versi, rivelano qualsiasi sfumatura della vita quotidiana e personale, quella stessa vita che da un giorno all’altro è stata sconvolta e annichilita dalla guerra.
“A volte mi stupisco che la vita sembri continuare. I tram girano. Sulle betulle fioriscono i frutti. Ma poi penso che siano come fiori recisi in un vaso. Per qualche tempo sembrano ancora vivi. Ma in verità non hanno più né radici, né terra, né futuro.” (p. 60)
Sembra impossibile continuare a compiere le stesse azioni che si compivano prima, o andare avanti con la solita routine come se niente avesse subito un cambiamento drastico.
Il mutamento, al contrario, c’è ed è visibile in qualsiasi aspetto della vita, anche quello più ordinario; esso sta nell’impossibilità di rimanere neutrali, di agire secondo la propria coscienza, senza essere sopraffatti dai sensi di colpa o dal giudizio spietato delle altre persone. Si manifesta così lo scontro tra “noi” e “gli altri”, svoi e čužie: una contrapposizione molto cara alla letteratura e alla cultura russa che, ancora una volta, testimonia una percezione del mondo basata sulla complementarietà, ma anche sulla contraddittorietà; un modo per sottolineare la vergogna e lo smarrimento che inebria tutti coloro che si ritrovano a essere cittadini del Paese aggressore, ma che allo stesso tempo sono impossibilitati ad agire come vorrebbero:
“Se te ne vai sei un traditore, se resti sei complice. Se parli sei un delinquente, se taci sei complice. Se discuti fai aumentare l’odio, se non discuti sei complice. […]” (p. 29)
Ovunque appaiono scelte etiche da compiere obbligatoriamente, scelte che la voce narrante vorrebbe ignorare nel tentativo di proteggere se stessa e i propri familiari. Essere contrari all’invasione dell’Ucraina, il trovarsi in una posizione non solo diversa ma contrapposta a quella del governo, rende l’autrice vulnerabile e impaurita, incapace di prendere posizione non per pigrizia o insicurezza, ma per il terrore di ciò che potrebbe accadere ai propri cari.
È un dolore profondo e sordo quello che riaffiora leggendo le parole di Natal’ja Ključarëva. Il diario diviene l’unica possibilità di ritrovare la propria voce, di sentirsi meno fragili ed esposti. La pubblicazione si trasforma nell’audace tentativo di creare un legame con coloro che, come l’autrice, si sentono traditi dalla propria nazione e cercano di fare la propria parte. Ma in cosa consiste la propria parte? Come si prende posizione? Come si può testimoniare la propria opposizione in una situazione politica come quella russa dei nostri giorni? Natal’ja Ključarëva trova presto la risposta a questo spinoso quesito, affidando la propria voce alla carta e all’inchiostro – o meglio, a internet. Scrivere i propri pensieri, anche i più banali, non è che un gesto liberatorio e trasgressivo, di enorme potenza. Si tratta di un modo per resistere alle barbarie, all’oppressione e alle menzogne della propaganda; è un tentativo disperato di mantenere il contatto con l’umanità, provando a intercettare le angosce – ma anche le speranze – degli altri dissidenti, mettendoli in guardia, perché purtroppo non ci si può fidare di nessuno, neanche dei colleghi o dei vicini di casa.
“E d’un tratto ho capito che questo, probabilmente, è il mio ruolo in questa vicenda: esternare il mio dolore e con ciò aiutare la gente a esternare il proprio.” (p. 65)
Se il dolore dell’autrice può risultare inizialmente ostico da comprendere, le parole utilizzate per esprimerlo sono al contrario molto concrete e di effetto immediato. Lo stile è semplice, e consente a chi legge di entrare fin da subito nella mente di Ključarëva. La scelta di un linguaggio pulito, privo di ostilità e di violenza, in netto contrasto con la barbarie in atto e gli slogan di propaganda del governo russo, sottolinea il desiderio di unione e cooperazione. Il tentativo è senza dubbio quello di risvegliare la coscienza di massa, opponendosi alla violenza insensata tramite la ragione. Come scrive Massimo Maurizio nella prefazione, la lingua scelta dall’autrice “[…] è fatta di silenzi, della coscienza dell’incapacità di descrivere quello che sta avvenendo, dell’impossibilità di renderlo logico e della vergogna di essere cittadino del paese dell’aggressore […]” (p. 11). Sono frasi, quelle del Diario, che trasmettono con forza non solo i pensieri, ma soprattutto le insicurezze e le paure che attanagliano la scrittrice lungo l’arco delle ventiquattro ore, senza distinzione tra notte e giorno. Ogni riflessione è valida e viene appuntata, sottolineando come il pensiero della guerra sia onnipresente in ogni singolo aspetto della vita quotidiana.
Trattandosi di una raccolta di impressioni e memorie, la prosa appare molto frammentata. Alcuni frammenti risultano molto potenti, altri invece mancano di forza o di un vero contesto che possa aiutare chi legge a comprendere fino in fondo l’esperienza che l’autrice sta raccontando. Lo stile di tanto in tanto rasenta l’ovvietà e risulta piatto. Eppure, questa banalità funge da stratagemma per esprimere la propria dolorosa incredulità, quasi impossibile da esternare se non grazie all’intimità di un diario; ma è anche un modo per resistere alla disumanizzazione in atto, per tracciare un confine tra la propria identità e quella nata dalla propaganda e dal regime. L’alternanza di versi satirici a una prosa più triste e malinconica rende ancor più evidente l’oscillazione emotiva che la scrittrice sperimenta nel corso dei mesi, che ondeggia tra l’orrore e la speranza. Il risultato è un’incredibile dimostrazione di forza interiore e di resistenza morale, con l’intenzione di ricordare che la difesa dell’umanità può concretizzarsi solo mettendosi a nudo.
Apparato iconografico:
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