H. G. nelle fotografie di H. G. B., ovvero la perpetua reversibilità dei ruoli artista-modello

Michele Maltauro

 

‘Perché mi hai fotografato così tante volte?’

‘Non ho l’impressione di averti fotografato molto. Di certo ti ho fotografato meno volte di quanto avessi voluto. […] Ti fotografo come se facessi una provvista della tua persona, in previsione della tua assenza. Per il mio desiderio queste fotografie sono come un pegno, o una cauzione: non so nemmeno se un giorno le farò stampare. Ma se un giorno, per amore, la tua assenza mi diventasse intollerabile, ebbene, so che potrei far ricorso a questo piccolo rullino e sviluppare la tua immagine per accarezzarti o per stregarti, ma senza farti orrore…’

(Hervé Guibert, L’immagine fantasma, p. 173)

Sono state da poco acquisite dal Museo delle Culture di Lugano 145 stampe di Hans Georg Berger, esposte nella retrospettiva dedicata al fotografo tedesco (La disciplina dei sensi, 13.05.2021-16.01.2022), che ne allinea per serie i nuclei dell’opera – dai ritratti che raccontano gli abitanti di Rio dell’Elba ai lunghi viaggi in Laos, Thailandia, Iran per documentare il vivere di comunità religiose dalle tradizioni millenarie. La circostanza della mostra rappresenta un’occasione per ragionare intorno all’originalità di una certa parte della produzione di Berger, cui l’autore si è dedicato per più di dieci anni della propria vita e che, in questa cornice, si concretizza in circa 80 immagini a conclusione del percorso espositivo: la relazione fotografica instaurata con lo scrittore Hervé Guibert, modello davanti all’obiettivo e, al contempo, occhio dietro il mirino nel momento stesso dello scatto.

Hans Georg Berger, nato a Treviri nel 1951, studia Filosofia delle Religioni all’Università di Monaco e all’Università del Vermont, ma dedica la prima parte della sua vita soprattutto al teatro, fra l’inizio degli anni Settanta e la prima metà della decade successiva. Diviene prima un animatore del gruppo Rote Rübe, dove si sperimenta come attore, sceneggiatore, regista, per dirigere in seguito, negli anni 1977-1983, l’Internationales Festival des Freien Theaters in München. Alla fine degli anni Ottanta partecipa anche alla fondazione della Münchener Biennale. Al 1975 risalgono invece le prime collaborazioni con Joseph Beuys, l’artista-sciamano del feltro e del grasso animale alla cui ricerca Berger guarda specialmente per l’attenzione all’altro, lo spettatore della performance che diventerà poi il modello con cui condividere la sessione fotografica, e all’ambiente, in una direzione ecologista di matrice sessantottina.

Sempre dello stesso periodo, precisamente del 1978, è l’incontro decisivo con Hervé Guibert. Come ci informa Boris von Brauchitsch nei testi che accompagnano le foto a Guibert nel libro Un amour photographique (2019), lo scrittore francese è il giornalista di “Le Monde” che all’ultimo momento sostituisce Colette Godard per l’intervista al direttore del Festival teatrale nella città bavarese. Nonostante un colloquio piuttosto tiepido – consumato in buona parte nella birreria che, prima della demolizione, doveva la sua triste fama all’essere stata il luogo in cui è principiato il Putsch hitleriano del 1923 – e un articolo per nulla promettente, germina tuttavia un’amicizia solida e costante, la quale crescerà in un luogo fuori dal tempo e dallo spazio come l’eremo di Santa Caterina, sull’Isola d’Elba. Nell’estate del 1979, infatti, Guibert viene invitato a trascorrere le vacanze nei pressi dei ruderi di un santuario che Berger ha da poco scoperto in stato d’abbandono e deciso di ristrutturare, progettando di trasformarne la piccola parrocchia in punto di ritrovo per gli artisti e il terreno circostante in rigoglioso orto botanico, oggi visitabile. Nella povertà dell’abitazione, nel raccoglimento e nella natura lo scrittore troverà il rifugio ideale per la creazione dei suoi libri singolari, stesi per la maggior parte durante i periodi feriali.

Hans Georg Berger ha trasportato il cittadino che egli stava per far diventare modello in un luogo concepito come uno studio naturale e accidentato: un’isola, un monastero disabitato e a metà crollato, invaso dalle capre, dalle lucertole, da orde di topi, di spiriti, di serpenti, una dimora in sé inabitabile e sublime, un riparo di silenzio e di avversità, senz’acqua, senza elettricità, con la particolare qualità di essere illuminato, di sera, dalla luce di una folla di candele.

Così scrive Guibert nel 1988, in apertura della prima raccolta di fotografie che lo vedono come modello, L’image de soi, ou l’injonction de son beau moment ? (La traduzione è di Simona Cigliana, che in “La Repubblica” del 26 settembre 1992 ha proposto un estratto della prefazione di Guibert. Quest’ultima è presente anche nel catalogo Dialogue d’Images, 1992). Secondo Guibert, dedito all’arte della camera oscura da prima dell’amico, è proprio grazie a lui che Berger comincia a fotografare. Vedendo le immagini di Hervé, Hans Georg non si invaghisce solamente del medium in sé, ma anche dello strumento specifico che l’altro utilizza per realizzarle, una Rollei 35: ne acquista una, abbandonando la Leica che il padre gli ha regalato. Presa la giusta confidenza con l’apparecchio, quasi subito avviene l’elezione di Guibert a modello prediletto, già da quell’estate 1979 nell’Arcipelago toscano. Non è impresa facile persuadere lo scrittore a prestarsi al ruolo, dal momento che la vocazione guibertiana a una letteratura incentrata sull’io (egli appartiene, infatti, alla schiera di autori francesi che si distingue per la pratica problematica dell’autofiction) lo porta a voler mantenere un controllo maniacale sulla propria immagine, quella di una tenebrosa faccia d’angelo, i boccoli biondi che coprono la fronte e mai un sorriso sulle labbra. Eppure, con ostinazione Berger riesce a convincere Guibert a partecipare a un gioco di pose che si tramuta rapidamente in una dedizione fotografica duratura.

Contrariamente alla pittura, sparuto è il numero di riferimenti che in fotografia si può evocare discutendo dell’assiduità che un autore può rivolgere a un determinato soggetto. Fra questi spicca la preferenza della fotografia erotica per talune modelle o taluni modelli, come nel caso di Irina Ionesco che, non senza controversie, ritrae la figlia Eva dalla tenerissima età fino all’adolescenza inoltrata. Al polo opposto dell’eros, l’esempio forse più celebre di tale assiduità è poi il cammino intrapreso da Richard Avedon insieme al padre Jacob Israel, fotografato tra il 1967 e il 1973, anno in cui il soggetto viene immortalato in una conclusiva immagine post mortem. E ancora, una ricerca condotta contemporaneamente a quella di Berger è l’atto d’amore e d’arte che Seiichi Furuya rinnova quotidianamente, dal 1978 fino al 1985, fotografando la moglie Christine; Chirstine che, non sostenendo più il peso di una grave forma di schizofrenia e della depressione, si getta dal nono piano di un condominio a Berlino Est. Questi casi evidenziano come l’assiduità fotografica si manifesti sempre tra individui intimamente legati fra di loro e, soprattutto, quanto si riveli pericoloso registrare su negativo tali relazioni. Come sostiene Guibert nella già citata prefazione, non si può infatti negare che “ogni ostinazione fotografica su uno stesso soggetto racconta una decomposizione”. Per questo forse, per la paura dell’organico, nella storia della fotografia il mirino evita di sostare a lungo su una persona. E d’altra parte, a un processo accelerato di avvicinamento alla morte non sfuggirà nemmeno Guibert: a un tratto i ricci da amorino raffaellesco vengono tagliati, mettendo così in risalto una fronte allungata che riproporziona le guance considerate, fino a quel momento, piene e tondeggianti. Il ragazzo è diventato un adulto da immortalare fino alle soglie del diluvio, vale a dire l’inizio dell’esperienza dell’Aids nel suo corpo. Per pudore e profondo rispetto, dal 1988 al 1991, anno della morte del suo modello, Berger gli scatterà pochissime foto.

Esteticamente rigorosa per via del costante impiego del bianco e nero, l’immagine bergeriana è un’alternanza di verità e artificio che emana, in entrambi i casi, extra-ordinarietà. Il versante di verità è da intendersi come scarto rispetto all’affermazione letteraria e artistica del sé che Guibert domina nella propria opera, mostrando la notevole duttilità di un soggetto che negli sprazzi delle risate ritorna bambino, per raggelare gli entusiasmi negli scatti successivi e trasformarsi improvvisamente in un vecchio di novant’anni. Lo scrittore viene qui inquadrato, spesso e volentieri, insieme agli amici (Thierry, Christine, Mathieu, Eugène, Vincent, …) che prendono le vesti di personaggi nei suoi stessi libri. Diversamente, l’artificio consiste nell’assecondare l’affabulazione, nel voler calare il personaggio in storie, racconti, miti e posture che, evidenzia sempre Guibert, rendono questa seconda strada più romanzesca che fotografica. Esemplare è, in tal senso, il ciclo pubblicato nel libro Lettres d’Égypte (tradotto in italiano come Lettere dall’Egitto per i tipi di ETS, nel 1999), che s’intervalla a delle lettere mai imbucate di Guibert al fine di riproporre, in un progetto comune che vedrà la luce soltanto dopo la morte dello scrittore, il famoso viaggio di Flaubert e del fotografo Maxime du Camp del 1849. Vi compare un Guibert misterioso, vestito delle sue camicie sartoriali e con la frangia diventata un ciuffo ben pettinato, in dialogo con colossi e rovine oppure frammentato in parti del corpo che si allineano agli andamenti dei paesaggi. È una continua invenzione dell’io che si realizza osservandosi attraverso gli occhi dell’altro.

Ciò che Guibert riconosce studiando se stesso nelle foto di Berger è “l’injonction de son beau moment”, tradotto da Cigliana come “l’ingiunzione del bell’attimo fuggente”, una formula chiaramente ispirata al titolo italiano del film Dead Poets Society di Tom Schulman. Lo scrittore asserisce di aver rinvenuta l’espressione nei diari di Walt Whitman:

Walt Whitman, pescando alla fine della sua vita nei suoi quaderni privati, rilegati con lo spago, rivolge con un certo piacere la propria attenzione a quella che egli chiama ‘l’ingiunzione del bell’attimo fuggente’. In tutta la sua carriera di uomo e di poeta, egli non avrebbe fatto che questo: precedere il suo bell’attimo fuggente, spiarlo, se necessario fabbricarlo. E tutta la ricerca della sua scrittura, delle sue innumerevoli ‘Foglie d’erba’, è stata la testimonianza di quest’attimo. Ma esso, non è forse oggetto anche della ricerca memorabile di ogni opera fotografica? […] Hans Georg Berger mi rivela il mio bell’ attimo fuggente – ed è per questo che provo un piacere così intenso nel guardare le sue fotografie, come al di là di me stesso, e che provo oggi questo desiderio di condividerlo – tanto spesso quanto non l’avevo neanche immaginato nella corrente quotidianità di una giornata di vacanze; egli lo plasma e me lo rende, e il mio viso e il mio corpo non mi appartengono quasi più, sono soltanto esecutori di quell’attimo che era sul punto di evaporare – se colui che vi assisteva non avesse compiuto il gesto necessario per trasmetterlo.

Consegnare attimi alla memoria crudele della fotografia rientra fra gli scopi principali di quest’arte moderna, come pure nello specifico del lavoro di Berger; se quest’ultimo è in grado di fermare l’attimo propizio di Guibert, non dobbiamo però concluderne che si tratti di una ricerca intrapresa in autonomia. Difatti, la fotografia di Berger non è una carreggiata a senso unico, poiché il soggetto non obbedisce passivamente agli ordini impartiti dal fotografo, ma ne orienta attivamente l’operato in luogo di coautore dello scatto. Coinvolgendo nei panni di modello uno scrittore che narrativizza continuamente l’io, la sessione fotografica e l’osservazione, a pellicole stampate, dei “bei momenti” non possono che essere un esercizio per la rappresentazione del sé. Da questo punto di vista, nel contenuto non esiste idealmente una distinzione fra testo e foto: Sono di fronte alle fotografie di Hans Georg Berger come di fronte alla mia propria scrittura: contemporaneamente nel cuore di essa, eppure già così lontano.”

È dunque proprio parlare di reversibilità fotografica nel rapporto Berger-Guibert? Ebbene, dopo il contenuto che, dal punto di vista del modello, si presta a un’autoanalisi come se si trattasse di un proprio testo, un dato ancora più sostanziale è naturalmente la forma. Se si raffrontano le immagini prodotte da Berger e le coeve fotografie di Guibert (tra le pubblicazioni disponibili, la più ampia raccolta è proposta in Hervé Guibert photographe, 2011), si notano delle notevoli somiglianze stilistiche. Non solo esiste, come già sottolineato, una comunanza nella soluzione del bianco e nero e nell’impiego di un medesimo modello di macchina fotografica, ma ci si spinge addirittura all’indistinguibilità fra alcune zone della produzione dell’uno e dell’altro. Questa voluta ambiguità, che non è ancora possibile definire nei termini di una comune intenzione o in quelli di un reciproco influenzarsi, rappresenta una questione piuttosto spinosa. Per esempio, poco dopo l’uscita del volume Un amour photographique, a oggi la selezione più completa degli scatti di Berger all’amico, lo studioso guibertiano Arnaud Genon pubblica su Diacritik.com un intervento dai toni accusatori nei confronti del primo (Hans Georg Berger et Hervé Guibert : un amour photographique ?). Uno degli oggetti di quella che non è una semplice recensione prende le fattezze dell’immagine stampata sulla copertina del volume, la quale non si limita a somigliare a un’altra fotografia di Guibert, ma è assolutamente identica. “Arles”, il reperto in questione, compare infatti originariamente nel libro-catalogo Le seul visage (p. 38), titolo della seconda esposizione delle fotografie di Hervé Guibert, tenutasi presso la galleria di Agathe Gaillard nel 1984. Dopo la scomparsa di Guibert, l’immagine ricompare una seconda volta nel volume Dialogue d’images, dov’è attribuita a Berger. La fotografia si sviluppa orizzontalmente, immortalando uno spazio con due superfici in contrasto: più della metà sinistra è occupata dallo sfondo smaltato delle piastrelle di una stanza da bagno, che riflette nei suoi toni scuri una finestra aperta e da cui si staglia, all’estremità sinistra, uno spettrale getto d’acqua. Sulla destra, invece, il vetro smerigliato di una doccia, dietro la quale si distinguono busto e viso di Guibert, in una scenografia pseudo-hitchcockiana. Percorsi da un reticolo di vene in rilievo, dal fondale vitreo emergono l’avambraccio destro e la mano del soggetto, a creare un nuovo racconto. Non senza malizia, Genon definisce “Arles” un’appropriazione indebita da parte di Berger, asserendo che, se Guibert nel 1984 considera la fotografia come propria, allora l’idea, la messa in scena, la posa sono da ritenersi sue esclusive fabbricazioni e l’amico che preme il pulsante per immortalarlo dietro il vetro un mero esecutore. L’articolo si conclude giudicando fuori luogo e gratuite certe immagini del fotografo tedesco, finendo perfino per bollarlo, fra i puntini di sospensione, come mediocre imitatore dello scrittore francese: può darsi che ci sia in ciascun amore (fotografico) un ‘Desiderio d’imitazione’ (Les aventures singulières, Éditions de Minuit, 1982), per riprendere il titolo di un racconto di Guibert. Può darsi, in effetti, che, molto semplicemente, Hans Georg avrebbe amato essere Hervé…

Riportata in maniera più didascalica come “Hervé, Hôtel du Forum, Arles 1981” nell’apparato iconografico, la fotografia occupa infine le pagine 56-57 di Un amour photographique. Alle successive 58-59, è difficile non notare un’altra fotografia dall’inquadratura pressocché invariata – sempre orizzontale, con il medesimo ambiente, leggermente più ravvicinata –, la cui unica differenza con la precedente è che dietro il vetro non si riconosce più Guibert, bensì Berger. Un sopracciglio alzato e alterato dalla superficie trasparente disegna a quest’ultimo l’espressione sibillina, si potrebbe dire pittorica, di chi serba un segreto; se torniamo all’indice, ogni dubbio è fugato quando leggiamo “Hans, Hôtel du Forum, Arles 1981”, dando corpo all’ipotesi, più complessa ma delineabile con altrettanta evidenza, che Berger abbia fotografato Guibert in quell’occasione, e viceversa, secondo uno schema diverso da quello disegnato dallo studioso. Qual è, allora, il vero nodo del discorso? Qual è l’arcano nascosto e, al contempo, l’evidenza di queste fotografie? A una domanda di Bianca Laura Petretto sul rapporto fotografico con Guibert, Berger risponde:

Non ci annoiavamo mai a fotografarci l’un l’altro. Anche Hervé aveva una Rollei 35; facevamo spesso scambio di macchinette e pellicola (sempre 400 ASA). Lui ha scattato tante foto a me quante io ne ho fatte a lui. Solo alcune di queste fotografie sono state pubblicate fino ad ora. Noi vivevamo insieme e mescolavamo le nostre immagini, provavamo anche un certo piacere immaginando che un giorno galleristi, editori ed eredi si sarebbero trovati in difficoltà a capire chi fosse l’autore di una particolare immagine. Nell’archivio di Guibert a Parigi ci sono tanti miei negativi quanti di Hervé ce ne sono nel mio archivio a Berlino. Pensavamo che l’arte fosse amicizia, complicità, una visione condivisa del mondo sullo sfondo di una comune convinzione che mette in discussione la sostanza di che cosa si comunica e che cosa si capisce quando si guarda qualcosa per la prima volta. Ci siamo resi conto che non avremmo dovuto credere nelle risposte facili, che dietro la facciata ci sono sempre stanze segrete da esplorare.

Risalenti al 2001, a ben diciannove anni prima delle considerazioni di Genon, le dichiarazioni di Berger parlano di una fantasia inseguita dai due amici che consiste, per l’appunto, in un gioco di scambio artistico portato alle estreme conseguenze della perdita di paternità delle immagini. In altre parole, Berger e Guibert avrebbero fatto del proprio legame sia il materiale della comune ricerca fotografica sia la regola estetica entro la quale sviluppare tale ricerca, proiettando il significato di condivisione in una dimensione a loro esterna, posteriore, che si interseca anche problemi filologici e di ricezione. Un approccio inedito di questo tipo ha molto in comune con il mondo ludico, si tratta però di un gioco per adulti, tanto Berger e Guibert sono consapevoli dei propri mezzi: solo di facciata, per usare la metafora del fotografo tedesco, può essere visto come una pratica naïf, mentre se ci si addentra nelle stanze segrete si scopre che è piuttosto una “follia a due”, citando ora Guibert.

Per quanto una tale strada interpretativa sia affascinante, non possiamo stabilire con certezza se le parole di Berger corrispondano a verità o a bluff, almeno fino a quando non sarà attuato uno studio specifico di visione e raffronto del materiale integrale – negativi compresi –, conservato nell’archivio berlinese e in quello parigino. D’altro canto, non è nemmeno produttivo accostarsi al problema dalla prospettiva opposta di Genon che, riducendo il lavoro di Berger a spirito d’imitazione, appiattisce inevitabilmente la complessità di un rapporto fotografo-modello stratificato e problematizzato a più livelli. Un rapporto che risemantizza il dialogo canonico e un po’ stantio fra autore e soggetto dell’opera d’arte. Dove sta la risposta più verosimile? Forse nel mezzo. Certo è che, se prestiamo fede a Hans Georg, il gioco a due con Hervé è sicuramente folle, ma anche molto lucido nel suo realizzarsi e dispiegarsi nel tempo.

Bibliografia :

Il catalogo della mostra al Museo delle Culture a Lugano: Francesco Paolo Campione (a cura di), La disciplina dei sensi. Hans Georg Berger. Fotografie 1972-2020, Milano, Skira, 2021.

Hans Georg Berger e Hervé Guibert, Dialogue d’images, Bordeaux, Éditions William Blake & Co., 1992.

Hans Georg Berger e Hervé Guibert, Lettres d’Égypte. Du Caire à Assouan, 19.., Arles, Éditions Actes Sud, 1995. In italiano: Lettere dall’Egitto. Dal Cairo a Assuan 19.., trad. Ferrero Annamaria, Torino, EDT, 1999.

Hans Georg Berger e Hervé Guibert, L’image de soi, ou l’injonction de son beau moment ?, Bordeaux, Éditions William Blake & Co., 1988.

Hans Georg Berger e Hervé Guibert, Un amour photographique, von Brauchitsch Boris (a cura di), Parigi, Michel de Maule, 2019.

Hervé Guibert, L’image fantôme, Parigi, Éditions de Minuit, 1981. In italiano: L’immagine fantasma, trad. Martelli Matteo, Roma, Contrasto, 2021.

Sitografia:

Arnaud Genon, Hans Georg Berger et Hervé Guibert: un amour photographique?:  https://diacritik.com/2020/01/09/hans-georg-berger-et-herve-guibert-un-amour-photographique/ (ultima consultazione: 20/11/2021).

Hervé Guibert, Il mio attimo fuggente, trad. Simona Cigliana, in “La Repubblica”, 26 settembre 1992: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1992/09/26/il-mio-attimo-fuggente.html, (ultima consultazione: 20/11/2021).

Bianca Laura Petretto, Dell’arte cosa rimane? Nulla del “noi” ch’eravamo. Intervista a Hans Georg Berger (estratto tradotto per l’occasione da M.M.), http://www.hansgeorgberger.de/page/herve/text/herve_t03.html (ultima consultazione: 20/11/2021). L’intervista completa è rinvenibile in Città d’acque. L’opera fotografica di Hans Georg Berger – Town of waters. The photographic work of Hans Georg Berger, Campione Francesco Paolo e Montaldo Anna Maria (a cura di), Milano, Aisthesis, 2001.

 

Apparato iconografico:

Immagine 1: Hans Georg Berger, “Hervé et le perroquet Clotilde, île d’Elbe 1982” © Hans Georg Berger.

Immagine 2: Hans Georg Berger, “Arnaud, Hervé et Hugues récoltant des herbes, Casino Taddei Castelli, île d’Elbe 1982” © 2021 Hans Georg Berger.

Immagine 3: Hans Georg Berger, “I colossi di Memnone, Luxor, Egitto 1984” © 2021 Hans Georg Berger.

Immagine 4: Hans Georg Berger, “Hervé, Hotel Old Cataract, Assouan 1984” © Hans Georg Berger.

Immagine 5 e Immagine di copertina: Hans Georg Berger, “Le premier jour d’Hervé à la Villa Médicis, Rome 1987” © Hans Georg Berger.

Immagine 6: Hans Georg Berger, “Hervé, Hôtel du Forum, Arles 1981” © Hans Georg Berger.

Immagine 7: Hans Georg Berger, “Arezzo, 1988” © Hans Georg Berger.

Immagine 8: Hans Georg Berger, “Scirocco, Isola d’Elba 1982” © 2021 Hans Georg Berger.

One Reply to “H. G. nelle fotografie di H. G. B., ovvero la perpetua reversibilità dei ruoli artista-modello”

  1. Buongiorno Michele Maltauro,
    Leggo con piacere e, alla fine, con un sorriso il suo testo chiaro, eccezionalmentr bene ricercato e originale. La ringrazio per questa communicazione, scoperta solo oggi, per caso: non sono tanto abituato all uso dell internet. Sono a Milano per l apertura della mia mostra alla 29 arts in progress gallery che espone la foto della quale parla.
    Grazie. Ho letto con piacere.
    Hans Georg Berger

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