Il passare inesorabile del tempo nella terra di nessuno. “Victory Park” di Aleksej Nikitin

Eleonora Smania

Victory Park, pubblicato in Russia nel 2014 e vincitore del premio Russkaja Premija, è il romanzo più celebre di Aleksej Nikitin. Data la grande popolarità non solo in patria ma anche all’estero, il romanzo è stato tradotto in francese, inglese e italiano. Edito come sessantaduesimo volume all’interno della collana Sírin, Victory Park è stato pubblicato nel 2017 in Italia con traduzione di Laura Pagliara. Precedentemente a questo romanzo, l’autore aveva pubblicato successi editoriali come Istemi (pubblicato in Russia nel 2011), anche quest’ultimo tradotto in italiano da Edizioni Voland nel 2013.30

Link al libro: https://www.voland.it/libro/9788862433518

Victory Park


Il romanzo, ambientato nella Kiev del 1984, narra le vicissitudini dei personaggi che frequentano il Parco della Vittoria, costruito su una palude bonificata nella riva sinistra del Dnepr. All’interno del parco le vite di studenti, agenti di polizia corrotti, venditori di merce estera contraffatta e non, truffatori e veterani della guerra in Afghanistan ormai dediti allo spaccio s’intrecciano l’una con l’altra. Centrale ai fini del racconto è l’amicizia tra i due studenti di fisica Pelikan e Baghila, uno proveniente dal quartiere del Komsomol e l’altro proveniente dal villaggio di Očerety, quartieri animati da una profonda faida nata durante il processo di urbanizzazione avviato nel secondo dopoguerra e aggressivamente sviluppatosi lungo la riva. Sarà attraverso gli incontri compiuti dai due amici con i frequentatori del parco che il lettore riuscirà a osservare la vita della Kiev tardo-sovietica, popolata da figure atipiche e teatro di grottesche e surreali vicende quotidiane.

Popoli, vicende, successi e disgrazie si susseguono all’interno e attorno al Parco della Vittoria, terra di nessuno che non solo funge da spartiacque tra il quartiere del Komsomol da Očerety, ma anche tra ideologie e stili di vita diversi.

Caratteristica strutturale che si può notare fin da subito è la divisione tripartita dei capitoli, composti da paragrafi numerati. Ogni paragrafo numerato corrisponde a un cambio di punto di vista della narrazione, evidenziando una certa discontinuità e frammentazione narrativa. Il continuo cambio di prospettiva attuato dall’autore contribuisce alla creazione di un vero e proprio mosaico variopinto della Kiev degli anni Ottanta in tutte le sue sfaccettature: se nel precedente paragrafo il lettore ha seguito Pelikan nell’assidua ricerca del regalo perfetto per la fidanzata Irka, in quello successivo seguirà invece le peripezie di un farcovščik pronto a vendere la merce estera a chiunque desideri. La narrazione viene arricchita da una tagliente ironia, atta a trattare gli aspetti tragicomici e scabrosi sia dell’Ucraina del 1984. Il brillante scambio di battute tra Pelikan e i venditori di libri Malevič e Žorik fornisce una chiara visione dei rischi in cui coloro che erano coinvolti nel commercio del samizdat incorrevano e del giogo della censura sovietica, presenza talmente radicata da considerarla quasi naturale.

“ – Oggi Orzo ha stracciato la nostra censura nazionale […] Ho sempre sospettato che in lui si nascondesse un liberale.

– Mi scusi, Vitalij Petrovič, ma non le credo. I fantasmi, le visioni e la censura nazionale non si possono stracciare. Con tutto il rispetto per il talento di Orzo. Ogni pioniere sa che queste cose non esistono in natura, e in particolar modo la censura, da noi non c’è.

– Ho forse detto che ha distrutto l’inesistente censura sovietica, Pelikan? I suoi artigli hanno rovinato una raccolta di disposizioni sulla censura: tre statuti, delle circolari, delle delibere. Dai tempi di Pietro il Grande al regno di Alessandro II il Liberatore.

– Più che un liberale, caro Vitalij, si è dimostrato un normale gatto maleducato e un anarchico spontaneo […]. I liberali hanno cercato di dare una disciplina alla selvaggia censura russa. Di assoggettarla almeno ad alcune regole. Dato che eliminarla non si poteva.” (p. 93)

Kiev, descritta attraverso tinte tragicomiche, appare come una realtà distopica, nella quale sindacalisti scomodi vengono fatti rinchiudere più volte all’interno di case, giovani studenti vengono coinvolti in inchieste giudiziarie e utilizzati come capro espiatorio da poliziotti corrotti e persone minimamente sospettate di azioni controrivoluzionarie o spionaggio vengono incarcerate o fatte sparire. In un simile scenario, sono possibili due alternative per coloro non allineati al potere. La prima – come spiega Bogdanov, un giovane scrittore con il quale Pelikan stringe amicizia – è accettare lo status quo vigente, obbedendo e cercando di non risultare un elemento di disturbo all’interno della società sovietica, nella speranza di non farsi coinvolgere in situazioni di pericolo.

“[…] è così che vivono i miei amici. Lavorano senza fare caso ai calci e agli insulti che vengono dall’alto, e ce la mettono tutta per dimostrare ch non sono concorrenti di nessuno. Per questo, in un modo o nell’altro gli si perdona ciò che io chiamo il peccato di superiorità intellettuale. Bisogna mettersi bene in testa che i comunisti non se ne andranno: si sono abbarbicati qui per rimanere a lungo, non sopravvivremo a loro, non c’è niente da fare. Se non vuoi emigrare e non vuoi diventare uno di loro, devi imparare a vivere in una sorta di semideserto.”(p. 318)

La seconda alternativa consiste nel vivere una vita all’insegna del pericolo, infrangendo le severe leggi imposte dal governo. Le attività illegali – come il samizdat, la vendita di merce estera importata o contraffatta dai farcovščiki e la produzione illegale di tessuti in fibra di poliammide – che si svolgono all’interno di questo microcosmo presente a Kiev (ma non solo) ne sono la rappresentazione concreta. Tutti infrangono le regole, sostiene Pelikan, nessuno escluso. Si realizza quindi un vero e proprio paradosso sovietico: sebbene il rigido e opprimente sistema gerarchico-amministrativo caratterizzante tutti i territori dell’Unione Sovietica riesca ancora a mantenere il suo potere sui cittadini, sono ormai ben evidenti i segnali di cedimento della macchina sovietica che ne presagiscono l’inevitabile declino.

“I bolscevichi si sono sempre retti sulla menzogna e sul terrore, ma ora il terrore è arretrato, della paura è rimasto unicamente il ricordo, e solo tra le persone di una certa età, come lui […]. La paura si è indebolita e la menzogna è un pezzo che ormai è venuta a galla. I bolscevichi avevano promesso il comunismo,e dov’è? ” (p. 277)

Lo slancio utopico che animava il sogno comunista non è altro che una patina opaca, sotto la quale si cela l’altra faccia del comunismo. Il comunismo familiare ai personaggi è associato alla censura, alla corruzione, al malgoverno.

“Non esiste un altro comunismo, esiste solo quello che ci è toccato in sorte, il resto non è che un noioso piagnucolio di somari. E la ladreria mescolata alla totale ipocrisia […] è solo il rovescio della moneta sovietica.” (p. 271)

Nonostante l’imminente caduta del regime sovietico, il comunismo ha lasciato tracce indelebili della sua presenza, in particolare nell’ambiente naturale. Altro nucleo tematico molto caro all’autore presente sia in opere precedenti come Istemi che in questo romanzo è il rapporto tra comunismo e natura. Nei romanzi di Nikitin la natura è la personificazione di una condizione primitiva e arcaica dell’essere umano.

“Tutto ciò che il monaco Nestore scrisse in seguito nella sua Cronaca degli anni passati, tutto ciò che hanno raccontato gli insegnanti di storia ai loro alunni annoiati, si è consumato sulla riva destra[…]. La riva sinistra è la figliastra della storia. Sulla sua bassa riva, i campi irrigui fiorivano sotto il sole caldo, i pineti odoravano di resina e di fragoline di bosco, i beccaccini ingrassavano nelle paludi e solo qua e là, lungo le strade, sorgeva qualche piccolo villaggio, col nome ispirato agli abitanti della flora locale […]…” (pp. 47-48)

Il paesaggio naturale della riva sinistra del Dnepr – luogo geografico sconosciuto alle pagine della grande storia – appare come un mondo mistico, sconosciuto e completamente slegato dalle sorti della città ucraina prima della fine della Seconda Guerra Mondiale. Il villaggio di Očerety, assieme all’anziano Maksim Baghila (misteriosa figura del villaggio dotata di poteri magici), rappresenta l’ultimo baluardo di una vita all’insegna delle antiche tradizioni, che inesorabilmente verrà accerchiato e sostituito dagli edifici a cinque piani del Komsomol, dal cemento e dalle fabbriche.

“Sì, Kiev bruciava solo nei suoi sogni. In realtà stringeva Očerety in una morsa, gli iniettava il gas nelle vene e i cavi telefonici sotto pelle. La stupida ruota panoramica sovrastava il villaggio, la musica del parco lacerava il silenzio della sera con i suoi ritmi aspri. Era una musica che dava sui nervi, era odiosa, eppure Baghila capiva di essere impotente contro di lei, perché il ritmo della musica è il ritmo del tempo. Il tempo cambiava a rotta di collo e con lui la vita.” (p. 276)

Victory Park non è una semplice lettura, è un affresco della società ucraina tardo-sovietica, è un racconto feroce e tragicomico della Kiev “altra” e periferica e della vita quotidiana dell’uomo sovietico, creatura in attesa dell’inevitabile catastrofe.

Apparato iconografico:

Immagine 1: https://www.mangialibri.com/interviste/intervista-aleksej-nikitin

immagine 2: https://www.voland.it/libro/9788862433518

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