Laura Papo Bohoreta: una voce femminista tra i sefarditi di Bosnia

Claudia Deretti

Una scatola nella scatola nella scatola. Questo potrebbe essere il riassunto ridotto alle sue linee essenziali del lavoro di chi si occupa di letteratura. Ci sono dei casi però – nemmeno poi così rari – in cui le scatole rivelano dei doppifondi, e come Alice che cade nella tana del Bianconiglio arrendendosi alla caduta, si finisce per scoprire piccoli mondi isolati e l’infinita potenza dei loro abitanti.

La storia di Laura Papo Bohoreta sopravvive tenacemente all’erosione del tempo, inspiegabilmente in bilico sulla manciata di documenti disponibili e tradotti – salvo rare eccezioni – solo in lingua spagnola. La maggior parte delle sue opere si trovano ancora in forma manoscritta nell’Archivio storico cittadino di Sarajevo, alcune sono conservate presso il Museo Nazionale della Bosnia Erzegovina ed altre nella Biblioteca della Comunità giudaica. La comunità sefardita è stata una presenza culturale e religiosa alquanto singolare: approdata sul territorio bosniaco in seguito all’espulsione da Spagna e Portogallo, incontrò una più calda accoglienza e tolleranza nel periodo della dominazione ottomana. La comunità sefardita degli ebrei di Bosnia visse per secoli in una sorta di cauto ma deciso ripiegamento su se stessa: nonostante l’innegabile infiltrazione dell’influenza culturale balcanica ed orientale, riuscì a conservare le proprie tradizioni e perfino la propria lingua, detta giudaico-sefardita, mantenendone l’uso quotidiano e relegando l’impiego del serbo-croato solo a questioni pratiche spesso legate agli affari col mondo esterno. Il fulcro della vita sociale e domestica restava relegato sul piano confessionale e le famiglie, molto numerose, prediligevano unioni matrimoniali interne al proprio gruppo etnico. In questa società fortemente patriarcale, il passaggio sotto la dominazione austro-ungarica nel 1878 costituì un momento di rottura e, conseguentemente, di apertura: avvenne il primo vero contatto con l’Occidente. Ogni aspetto della vita sociale – da quello economico a quello culturale fino a quello educativo – venne rivoluzionato. Furono aperte le prime scuole pubbliche, che anche alcune donne iniziarono a frequentare. In questa burrascosa fase di passaggio nacque, il 28 marzo 1891, Luna Levi, primogenita in una numerosa famiglia di origini ebraiche composta da due fratelli e cinque sorelle. Luna adotterà in seguito il nome Laura, probabilmente influenzata dall’ambiente francesista della scuola che frequenterà durante la permanenza della famiglia a Istanbul, ma non rinuncerà al tradizionale appellativo Bohoreta che si usava dare alle primogenite delle famiglie sefardite orientali. Il cognome Papo è invece eredità del marito.

Laura (al centro) e le sorelle Levi

Sebbene si abbiano poche notizie delle ordinarie vite dei fratelli, sono le donne Levi a far parlare di sé: delle cinque sorelle una diviene precoce scrittrice, una rinomata ballerina e tre imprenditrici estremamente all’avanguardia. Le loro biografie tratteggiano profili di donne determinate, gli stessi che emergono nei personaggi delle opere di Laura Papo, donne spintonate dal contrasto con un mondo antico e prezioso che sentono il bisogno e il dovere di proteggere e conservare e l’attrazione irrefrenabile verso il nuovo modo di vivere che sta lentamente consumando il vecchio. Quella mujer fuerte (donna forte) che sa adattarsi al cambiamento incessante della storia grazie alle proprie capacità e che proprio per questo, citando il Libro dei Proverbi, “vale molto più delle perle”, ha ora la possibilità di cesellare le sue qualità attraverso lo studio. Non sorprende poi così tanto dunque che una delle polemiche che ha suscitato un eco maggiore sia quella con il contemporaneo Avram Romano “Buki”. In uno dei suoi racconti intitolato Dos vizinas in el kortizo (“Due vicine nel cortile”, 1924) due vicine, Lea e Bohoreta, criticano l’emancipazione femminile che ha ormai distratto tutte le donne dal ramazzare, lavare, pulire e prendersi cura dei propri mariti. “Ke se vea ke Buki es Buki, i no es Bohora” (Ché si vede che Buki è primogenito, e non primogenita) scrive amaramente Laura nella sua lettera in risposta allo scrittore, che per altro chiama confidenzialmente – e non senza quel tono di accondiscendenza che si usa tipicamente con i bambini – “Buki”, diminutivo usato nei Balcani di Bohor ovvero primogenito. Un libro tra le mani di una donna divampa in un incendio, ne incanala la forza. Il coinvolgimento delle donne nel lavoro è uno dei segni del processo di modernizzazione femminile, ma non è di per sé un valore, solo un tramite. Ciò che conta è l’affermazione sul piano morale della donna. Finalmente, impugnando la sua istruzione quasi come una mannaia per farsi strada in una giungla urbana regolata dalle piroette dei valori monetari e dai capricci dei politici, le donne non sono più costrette allo svilimento per sfamare i loro figli. Buki equivocava la vera anima della donna sefardita: non ottusamente attaccata ai valori che avevano ormai perso il nuovo vigore a contatto con il nuovo mondo, ma fedele alla propria identità culturale e capace di piegarsi al corso della storia e adattarsi alle nuove situazioni abbandonando le forme di vita ormai spoglie di senso e vigore. Questi pensieri animano Laura Papo molto precocemente. Quando Laura scrive Elvira, commedia redatta in francese (1908), aveva appena 17 anni:

[…]
Rozi: C’est si amusant! Imagine-toi qu’un jeune
homme bien beau et construit comme il faut demandait ta main.
Reha: Pourquoi l’accorder! Si tu lui donnes ta main il ne te
reste qu’une seule main. Tu
seras simplement infirme, ou
pour mieux dire, manchote!

[…]

Rozi: É così divertente! Immagina che un giovane
uomo bello e con una buona posizione debba chiedere la tua mano.
Reha: Perché accordargliela! Se tu gli concedi la tua mano non ti
resterà che una mano sola.
Sarai semplicemente inferma, o
per meglio dire, monca!

C’è molto di autobiografico nelle forti sottolineature contenute in Madres (“Madri”, 1924), l’articolo con cui risponde ad Avram Romano “Buki”: non solo lei stessa insegnava francese, ma si ritrovò a provvedere da sola ai suoi due figli quando il marito fu internato in un ospedale psichiatrico poco dopo il matrimonio. Come tocco finale, quasi come una provocazione, Laura Papo si firma semplicemente “Bohoreta”. Anche lei primogenita, ma soprattutto donna. Tuttavia, il debutto di Laura Papo avviene in risposta ad un altro articolo del “Bosnischer Post”: Die südslawische Frau in der Politik (“La donna slava del sud in politica”, 1916), scritto da Jelica Belović-Bernadzikowska. Quest’ultimo cercava di presentare le differenti attitudini delle donne appartenenti alle quattro nazionalità e religioni esistenti in terra jugoslava. Una piccola sezione veniva dedicata anche alla donna sefardita, dipinta come principale causa delle proprie sofferenze. Fattasi paladina degli stessi valori tradizionali patriarcali che la opprimevano non era in grado, secondo l’autrice, di preoccuparsi d’altro che degli affari del marito o del fratello; esclusivamente per questa ragione trovava utile padroneggiare la lingua, oltre ad un dialetto incomprensibile e retrogrado che ben si sposava con la sua mentalità di stampo medievale. Laura Papo rispose con un infuocato articolo edito sullo stesso periodico intitolato Die Spanoliske Frau (“La donna spagnola”, 1916), dove ribatteva accusando Belović di essere ben poco informata sulla realtà sefardita. Un mondo con le sue luci e le sue ombre, ricco però di figure femminili che stavano iniziando a servirsi dell’educazione come uno strumento per lottare contro usanze castranti e affermarsi nella nuova società.

Se da una parte possiamo affermare l’adesione di Laura Papo ad un pensiero programmatico femminista confermato dalla presenza di articoli dai toni guidaico-femministi tra le numerose traduzioni di autori stranieri divulgate, resta una sorta di incertezza nelle sue parole. Si ha quasi l’impressione che Laura Papo esiti a completare il salto così strettamente legato per lei alla formazione, alla conoscenza e allo spessore del proprio valore. È nella sua penna che questo coraggio si incarna in uno slancio profondamente umano e trova pieno sfogo.

Per la scrittrice l’emancipazione non è un’esperienza totalizzante, ma semplicemente una necessità dei tempi contingenti. Il ruolo della memoria e delle radici così ricorrente e sentito tra gli autori ebrei emerge anche nella sua prosa e poesia fin dalla prima giovinezza. Oggetto dei suoi racconti, dei romanzi e delle canticas è la donna sefardita descritta nelle sue virtù e nei suoi difetti durante la sua vita quotidiana. Sia essa madre, lavoratrice, vecchia o giovane scolara, porta con sé un fascino antico. Laura Papo si impegnò per tutta la sua vita nel raccogliere ed organizzare una quantità di materiale che costituirà un tesoro prezioso traccia di una comunità che non deve scomparire, che è in grado di sopravvivere allo scorrere del tempo solo facendo affidamento proprio a quella capacità di pacificazione interiore delle donne del passato. La donna sefardita, con tutti i suoi riti e i suoi profondi radicamenti interiori è rimasta là, ma sospinta dagli eventi ha finalmente un nuovo spazio da conquistare: ha scoperto il suo doppio fondo. Ha scoperchiato la sua scatola.

Bibliografia:

Eliezer Papo, Entre la modernidad y la tradición, el feminismo y la patriarquía: Vida y obra de Laura Papo “Bohoreta”, primera dramaturga en lengua judeo-española, “Neue Romania” 40, 2010, pp. 97-117.

Nela Kovačević, La mujer sefardì – cuentos, textos y poemas – Laura Papo “Bohoreta”, Granada, eug, Salti Institute, 2018.

Apparato iconografico:

Immagine 1: https://images.app.goo.gl/vq1MXzAJKjMzA8yU6