Da duemila anni. La sintesi impossibile delle identità in Mihail Sebastian

Anna Chiara Canova

Pubblicato nel 1934, De două mii de anii (“Da duemila anni”) dell’autore ebreo e romeno Mihail Sebastian, pseudonimo adottato nelle pubblicazioni a partire dal 1926, è il diario di un intellettuale ebreo ambientato nella Romania interbellica dal 1922 al 1933. In bilico tra il finzionale e l’autobiografico, il romanzo-diario segue con due prospettive di indagine i fenomeni speculari della questione ebraica e dell’antisemitismo romeni: la prima indagine, storica e sociale, fornisce una testimonianza dello spaccato storico del crescente clima antisemita e di tumulto morale di un’epoca di cambiamenti, senza condanne o giustificazioni ma solo cercandone le radici; la seconda, autobiografica, è una confessione attraverso cui l’io narrante esprime la delicata interiorità dell’autore e del dramma della sua scissione identitaria.

Il protagonista del romanzo, come Mihail Sebastian stesso, si trova a convivere quotidianamente con l’antisemitismo dei compagni di corso; questi impedivano agli universitari ebrei l’accesso alle lezioni attraverso l’utilizzo della violenza e lottavano per il numerus clausus, la limitazione all’istruzione superiore per le minoranze. Nella prospettiva dell’epoca si temeva che l’ingresso degli ebrei nelle università, visti come appartenenti all’élite finanziaria guardata con crescente sospetto in tutta Europa, avrebbe portato a una falsificazione della cultura con l’imposizione di un modo di vivere borghese. L’io narrante di Sebastian affronta le umiliazioni e i pestaggi senza ribellarsi fisicamente, intimandosi di non piangere; per farsi forza compiange il suo destino di essere “figlio di un popolo di martiri”. Un’appartenenza imposta dallo sguardo altrui, ma accettata dallo stesso io; eppure, nello sforzo di condividere il fato dei suoi colleghi ebrei, il protagonista si scopre privato della sua solitudine e della sua individualità.

“Ciò che più mi deprime è la sensazione di stare perdendo, giorno dopo giorno, la sicurezza della mia solitudine, […] di discendere insieme a loro i gradini della commiserazione, di diventare come loro, un individuo incline a compatirsi e a confortarsi. La cordialità ebraica che tanto odio. Sono tentato dal pensiero di sbottare in un’imprecazione alla prima occasione, e per far capire che, nonostante mi trovi fra dieci persone che mi credono “fratello di sofferenze”, io sono solo, completamente solo, assolutamente solo.” (p.23)

Questa solitudine, la stessa che spinse E. M. Cioran a vedere negli ebrei “un popolo di solitari”, si dissolve nella formazione di fazioni e di tifoserie. L’io narrante non desidera spartire le sofferenze con i compagni ebrei; tantomeno vuole abbandonarsi alla voluttà del sentirsi perseguitato. Il dramma dualistico dell’identità di Sebastian è individuale: egli cerca la dimensione collettiva dei colleghi ebrei e della sensibilità ebraica, ma al contempo la rifugge; non vuole farsi portavoce della condizione di un popolo, non vuole essere un martire, non vuole perdere le sue diverse identità. Il dramma dell’identità ebraica si scarnifica fino a diventare un dramma diverso, meno specifico e più universale: quello dell’identità umana più generale. Come lo Shylock di Shakespeare, Sebastian prima che ebreo vuole essere uomo, al punto tale da voler quasi rinnegare la sua stessa identità.

“Mi dispiace che, in questa mia diatriba interiore, conservi ancora una certa simpatia per me stesso. Mi dispiace rendermi conto di amare il mio destino. Vorrei potermi detestare violentemente, senza nessuna scusa, senza comprensione. Vorrei essere antisemita per cinque minuti e sentirmi un nemico che deve essere liquidato.”  (p.38)

Il conflitto più autentico, quello interiore, s’intreccia con quello collettivo. La domanda ultima “potremmo mai fare pace con noi stessi?” si alterna a “potrà mai un popolo riuscire a riconciliarsi prima di tutto con se stesso?”. L’antieroe della storia personale si trova di fronte alla vera ostilità, che non è quella dell’antisemitismo altrui, ma quella della propria avversione interiore, del proprio destino di perseguitato dal quale fuggire ma al quale continuamente torna per crogiolarsi.

“Sennonché un bel giorno, in un momento di disattenzione, ti incontri con te stesso, in un angolo del tuo cuore, come se ti incontrassi all’angolo di una strada con un creditore al quale hai cercato invano di sfuggire. Incroci il tuo sguardo e comprendi, allora, quanto siano stati vani i tuoi tentativi di evasione da questa prigione senza mura, senza cancelli e senza grate; da questa prigione che è la tua stessa vita. […] Alla fine si ritorna tutti irrevocabilmente alla tristezza.” (p.55)

La tristezza è ciò che accomuna gli uomini e anche gli ormai ex colleghi antisemiti che l’autore definisce come “infelici eroi” e con i quali il protagonista, nonostante i timori delle ostilità subite stringe amicizia. Tuttavia, l’io narrante percepisce un permanente “ordine di esecuzione” sulla sua vita, un perenne senso di colpa per la sua esistenza che lo spinge al desiderio di autodenunciarsi di fronte al giudizio altrui:

“Sentivo un bisogno stupido, buffo, urgente, di denunciarmi: sono ebreo. […] Non di rado ho invidiato la vita semplice degli ebrei del ghetto, con la loro fascia gialla sul braccio. Un’idea umiliante, forse, ma comoda e decisa. Giacché in questo modo, loro la potevano smettere una volta per tutte, con l’orribile commedia di pronunciare il proprio nome quasi fosse una denuncia.” (p.156)

Nel viaggio identitario intrapreso dall’autore, la questione onomastica assume grande importanza: il suo nome di battesimo e il suo pseudonimo racchiudono il nucleo dell’identità romena e di quella ebraica e prima ancora l’identità umana stessa. Iosef Hechter era il nome di battesimo dell’autore, Mihail Sebastian il suo pseudonimo. Nessuno di questi due nomi compare nel testo, sebbene sia facile supporre che il protagonista sia entrambi; tuttavia, il nome ebraico di Sebastian è però presente nella prefazione all’edizione del 1934 del testo. Rilettura della questione ebraica in chiave teologica e considerata antisemita, l’introduzione era stata scritta da Nae Ionescu, intellettuale di spicco, maestro della “giovane generazione” e scopritore di Sebastian, che chiamò in questa il suo allievo con il suo nome di battesimo, Iosef Hechter, e gli ricordò di essere un ebreo di Brailă e non un romeno di Brailă. Se si considera il valore diaristico del testo, si potrebbe ipotizzare che sotto le maschere di alcuni personaggi si nascondano i volti conosciuti da Sebastian: pertanto i due maestri del protagonista potrebbero essere trasposizioni delle fasi di pensiero Ionescu (Ghiță Blidaru il primo Ionescu, Mircea Vieru il secondo); gli amici “antisemiti” gli esponenti della giovane generazione.

Mihail Sebastian (secondo a sinistra) e Mircea Eliade (quarto a destra)

Nella parte centrale del testo la narrazione si sposta sugli incontri dell’ex studente universitario, diventato ora architetto, con i vecchi compagni di corso; i tumulti del ’23 hanno lasciato uno spirito rivoluzionario persistente. Attraverso i loro dialoghi l’antisemitismo romeno viene visto come “commedia umana” priva di interpreti positivi o negativi. Personaggio chiave è Ștefan Pârlea, ex collega universitario del protagonista, contraddistinto dal suo fervore cieco: come un’intera generazione cercava una strada per opporsi al sistema capitalistico e all’industrializzazione del modello occidentale, conseguenti alla modernità e visti come perdite dei simboli della nazione, della terra e della dimensione rurale. Attraverso le sue azioni si oppone alla perfidia dell’ordine e delle gerarchie che trasformano il popolo in servi; al capitalismo che impone necessità e bisogni egli contrappone la volontà di radere al suolo tutto; vive anche lui un sincero dramma, riconosciuto e compreso dal protagonista stesso. Non importa chi sarebbero state le vittime, qualcosa doveva scatenarsi; e gli ebrei sembravano i perfetti agnelli sacrificali per l’altare di un mondo nuovo: il loro colpevole destino millenario si sarebbe così concretizzato.

Nelle ultime parti del romanzo viene lasciato spazio alla descrizione dell’atmosfera precedente allo scoppio del secondo conflitto mondiale: il tempo della demolizione che Ștefan Pârlea attendeva era giunto. Dopo una serie di tumulti e scioperi da parte degli operai che rivendicano salari migliori, l’io narrante di Sebastian è costretto a uscire dal guscio della propria individualità. Sintomo di questo cambiamento nell’io narrante è la reazione alle ennesime grida “morte agli ebrei”: questa volta, a differenza delle altre, il protagonista non le ignora ma si interroga sul come poteva essere così facile lanciare questo grido di morte senza che nessuno si voltasse a guardare; il grido passava inosservato sovente per le vie della Romania, risuonando nelle orecchie dei distratti uditori, confusi dall’eccessivo rumore. Le tensioni e i soprusi a danno degli ebrei aumentano; il protagonista inizia a non frequentare più Bucarest.

Nelle ultime pagine, mediante il dialogo risolutivo con Mircea Vieru, colui che tra i conoscenti del protagonista pareva nei mesi precedenti il meno incline all’antisemitismo, vengono chiarite le ragioni dell’antisemitismo e della questione ebraica in prospettiva storico sociale.

“Esiste ancora una questione ebraica che bisogna risolvere. Non è possibile sopportare un milione e ottocentomila ebrei. Se dipendesse da me, cercherei di eliminarne alcune centinaia di migliaia. […] Cerca di capire. Io non sono antisemita. Te l’ho già detto e lo ribadisco. Ma sono romeno. E, in questa veste, tutto ciò che mi si oppone rappresenta per me un pericolo. C’è uno spirito ebraico irritante da cui devo difendermi. Nella stampa, nella finanza, nell’esercito, dappertutto percepisco la sua oppressione. Se il nostro organismo statale fosse resistente, non mi importerebbe un granché. Ma non lo è. […] Ed è per questo che devo lottare contro gli agenti della decomposizione.”  (p 263)

In questo brutale scambio è contenuto tutta l’essenza dell’antisemitismo romeno; ma alle ragioni dell’amico, il protagonista replica sostenendo l’inesistenza di un antisemitismo specificamente nazionale, ritenendo il fenomeno piuttosto universale.

“Gli ebrei hanno l’obbligo metafisico di essere detestati. Questo è il loro ruolo nel mondo. Perché? Non lo so. È La loro maledizione, il loro destino. […] Se fosse possibile sterminarci sarebbe, una cosa buona. E sarebbe tutto sommato facile. Ma nemmeno questo è possibile. Il nostro obbligo di esistere sempre nel mondo è corroborato da tante migliaia di anni che, come ben sai, non sono state affatto compassionevoli. E allora bisogna accettare – e io l’accetto – questa alternanza di massacro e pace, che scandisce il ritmo della vita ebraica.” (p.262)

L’autore rassicura tristemente i suoi lettori: al grido di sangue e morte non verrà opposta resistenza alcuna.  Da duemila anni il popolo ebraico tragicamente sa di dover accettare il proprio destino:

“Non spaventatevi, vecchi signori miei. Non perderete nulla, né quello che avete creduto, né quello che non avete creduto, né la testa, né i soldi, né le vostre piccole certezze, né i vostri piccoli dubbi. Tutto rimane al suo posto, tutto sarà com’è adesso. Casualmente, esiste un grido che arriva giusto in tempo per placare le grandi indignazioni e per ammansire le grandi rivoluzioni. Esiste una morte a buon prezzo, che è più richiesta della vostra morte cara. Esiste un popolo di uomini pronti a pagare in tempo per voi, per i satolli, per gli affamati, per i bianchi, per i rossi, per gli smilzi, per i grassi. Non avete detto che è un popolo di banchieri? E allora, che paghino…” (p.270)

Sebastian afferma la sua identità di ebreo; con sguardo profetico non si rassegna alle ombre che si avvicinano ma nemmeno le rifiuta, accentandole fatalisticamente; al fermento generazionale Mihail Sebastian risponderà con la quiete e la resistenza, alle urla replicherà con parole e silenzi.

Non è un caso che l’io narrante di Sebastian sia un architetto: nel tempo della distruzione e dell’incendio storico che divampa, egli sceglie di affermare la sua esistenza e le sue identità costruendo “una casa per il sole”. La veste d’ebreo ontologicamente esule ed errante dipinto da Cioran e Ionescu mal si attagliava a Sebastian. Una dimora precisa gli apparteneva: il Danubio lo aveva visto nascere e crescere e cercare una sintesi per le sue due identità; e se non poteva godere del pieno diritto dei romeni, della piena fiducia delle istituzioni, se non poteva dirsi cittadino legale di Brăila, tuttavia poteva dirsi figlio naturale del Danubio. Iosef Hecthter e Mihail Sebastian appartengono alla bianca malinconica luce del sole di pianura.

“Non smetterò mai di essere ebreo. Non è una funzione da cui ti puoi dimettere. O lo sei o non lo sei. Non si tratta ne di orgoglio né di vergogna. È un dato di fatto. Se provassi a dimenticarlo, sarebbe inutile. Se qualcuno cercasse di confutarlo sarebbe altrettanto inutile. Ma non smetterò mai, altresì, di essere un uomo del Danubio. È anche questo un dato di fatto. Che ci sia qualcuno che me lo riconosca o meno, poco importa.” (p.276)

Nel fiume Sebastian riconosce la sua casa, alla meticolosa cura con la quale i barcaioli scandagliano il fondo riconduce la sua raffinata capacità di lettura della realtà. Ogni fervore è stato placato; alle drammatiche difficoltà interiori Sebastian oppone la semplicità di questo paesaggio di pianura: le sue identità di ebreo, di romeno, d’intellettuale nel moto delle acque del fiume si conciliano.

 

Bibliografia:
Emil M. Cioran, La tentazione di esistere, traduzione di Laura Colasanti e Carlo Laurenti, Milano, Adelphi Edizioni, 1995.

Lucian Nastasă, Antisemitismul universitar în România (1919–1939) : mărturii documentare, Cluj-Napoca Kriterion, 2011.

Mihail Sebastian, Da duemila anni, traduzione di Maria Luisa Lombardo, Roma, Fazi Editore, 2018.

William Shakespeare, Il mercante di Venezia, Torino, Einaudi, 2014.

 

Apparato iconografico:

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